RECENSIONE DELLA SETTIMANA
TITOLO : Playing the angel
AUTORE : Depeche Mod
GENERE : synth-pop
ANNO : 2005
Domanda retorica: i Depeche Mode devono forse ancora convincere qualcuno di essere band capace come poche altre di unire un indiscutibile, e mai scontato, appeal commerciale e una reale, ed elevata, qualità artistica? Se la vostra risposta è "sì", peggio per voi. In caso contrario allora a maggior ragione possiamo gioire e stupirci di fronte a questo loro undicesimo album.
Stupore, sì: perché stupisce ritrovare con un disco così questi tre ormai sereni, eleganti e sorridenti signori ultra-quarantenni che potrebbero benissimo vivacchiare sulla loro fama, come fanno quasi tutti i gruppi loro coetanei ancora in circolazione e come sembrava fossero destinati a fare anche loro stessi, a giudicare dall'ultimo "Exciter" (2001), disco sì piacevole ma nel complesso stiracchiato e smarrito. E invece "Playing The Angel" ci fa tirare un gran sospiro di sollievo, ci dice che il trio ha prontamente trovato ancora nuove ispirazioni e nuovi stimoli.
Da quella formidabile fabbrica di straordinari singoli che sono sempre stati i Depeche Mode in effetti, la riuscita del disco la si poteva intuire già dalle primissime apparizioni on-air della clamorosa "Precious". Brano che è già degno di figurare tra i loro classici, e che faceva oltretutto intuire (o è meglio dire sperare?) un ritorno del gruppo alla sua vera e unica identità sonora: ovvero synth come se piovesse e melodie di impareggiabile fluidità ed eleganza, rese ancor più preziose dalla voce di un Dave Gahan sempre più composto, espressivo, perfetto.
Ma i DM fanno ancora di più e malgrado le loro dichiarazioni circa una svolta più "ottimista" del loro sound, eccoli che pubblicano quello che forse è addirittura il loro disco più grave e claustrofobico. L'arrangiamento di tutti i brani è affidato nella sua quasi totalità a un'elettronica densa e pesante, a dominare è un mood cupamente introverso come e più che in "Ultra", grande album che nel 1997 tentò un'operazione simile, ma allora il gruppo e soprattutto Gahan si portava sulla schiena ancora troppi spettri del passato.
Ad accoglierci c'è subito una canzone che più Depeche non si può, "A Pain That I'm Used To" e ancora più inconfondibile è il loro marchio in "John The Revelator", inno à la Bowie scandito da ritmi sferraglianti come nemmeno ai tempi di "Speak And Spell", e soprattutto nella splendida "Suffer Well".
Ma quando arriva la malinconia luminosa di "Precious" ci accorgiamo che in realtà nel disco il bellissimo singolo funge da contrappeso a pezzi meccanici e ossessivi come "The Sinner in Me" (quasi una nuova "Barrel of a Gun"), e altri immersi in una penombra insondabile. Penombra che avvolge un brano da lacrime agli occhi come "Nothing's Impossible", che quanto avrebbe ben figurato in un "Black Celebration" o in un "Violator"... E penombra avvolge anche la finale e fluttuante "Darkest Star" e l'accorata "Macro", brano nel quale Martin Gore (come sempre autore di tutte le canzoni) si cimenta anche alla voce, e la foxxiana "I Want It All", gioiello di atmosfera.
Mauro (ondarock)
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