live report : AFTERHOURS (Roma -Circolo degli Artisti 11-12/4/06)
Se già l’idea di aver tradotto un disco che ha riscosso così tanto calore e approvazione, sia fra una parte dello zoccolo duro dei fan del gruppo, sia fra nuovi ammiratori, aveva suscitato borbottii e lamentele, il solo pensiero di doversi “sorbire” dal vivo queste traduzioni (che poi traduzioni non sono, ma piuttosto riadattamenti), non va proprio giù. Ed è così che da gennaio fino ad oggi, i live degli Afterhours sono diventati teatro di contestazioni, lamentele e lotte all’arma bianca, anche tra lo stesso Agnelli e il pubblico. E le due date romane di cui si sta scrivendo non sono state da meno, come clima, rispetto al resto del tour.
Se infatti la sera dell’undici lo spettacolo si conclude piuttosto bene, nonostante una parte sostanziosa di pubblico non si sia degnata di rispettare né i musicisti né il resto della gente che era lì (anch’essa – ricordo - pagante), cantando sempre di più e sempre più forte su tutti i pezzi in inglese, durante la sera del dodici, le cose non sono andate altrettanto bene (curioso poi notare come alcuni volessero ascoltare una versione italiana persino di "Icebox", piccola perla che gli Afterhours hanno rispolverato dal loro primo album del 1990, "During Christine’s Sleep", album che venne pubblicato solo ed esclusivamente in inglese, come tutte le uscite degli Afterhours fino al 1993).
Dopo fischi, coretti e altre amenità di questo tenore, si arriva quindi quasi esausti (per via delle limitate dimensioni dell’altrimenti perfetto Circolo degli Artisti) a un bis, in cui Agnelli decide di “osare” e di proporre la pietra dello scandalo di tutto il tour: e cioè la famigerata English version di "Ci sono molti modi", ovvero "There’s Many Ways". Ma non si fa in tempo ad arrivare al primo ritornello che le urla e la sovrapposizione delle voci del pubblico ululante in italiano sono talmente forti, che Agnelli (facendo giustamente temere una ripetizione dello spettacolo del Fillmore di Cortemaggiore, dove dopo contestazioni ininterrotte e uno sputo in faccia, il leader degli Afterhours scese dal palco per schiaffeggiare personalmente il lama di turno) stizzito molla la chitarra di scatto, per poi riprenderla e lanciarsi in una versione spigolosissima di "Rapace", ringhiando un: “Ecco, questa è in italiano”, che tradiva molto più di quanto lui volesse e trasformando il pezzo in un muro di piombo tra lui e un pubblico indispettito, poco complice e padrone.
Chi legge si starà probabilmente chiedendo, cosa rimanga della musica, dopo le polemiche, le scazzottate, le isterie collettive. E ciò che conforta è che della musica, per fortuna e nonostante tutto, rimane moltissimo.
Perché gli Afterhours, dopo quasi quindici anni di instancabile attività live, capitanati da un Agnelli bambino quarantenne, con al motore un Prette sempre più indispensabile, e con una line-up rinnovata ad uopo (Viti sostituito al basso dal ruspante Roberto Dell’Era e l’aggiunta dell’eclettico polistrumentista Enrico Gabrielli), dimostrano ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, di continuare a essere nonostante tutto, gli alfieri del rock nostrano. E così dal vivo rispolverano vecchi abiti (in)dimenticati, infilando nella scaletta di questo tour, versioni riarrangiate di "Come Vorrei" (dove si palesa tutta la grazia di Gabrielli), o reinterpretate di "Ritorno a casa", in cui Agnelli (come nella succitata "Milano Circonvallazione Esterna") diventa sciamano, teatrante, attore; nello stesso modo in cui con un cantato nevrastenico fa venire a galla tutta l’angoscia dell’essere cresciuti durante il decennio oscuro dell’eroina e dei paninari insieme, in "Non si esce vivi dagli anni Ottanta"; nello stesso modo in cui, ferito suo malgrado, dedica a quello stesso pubblico che lo rifiuta, una versione mai così incazzata di "Sui giovani d’oggi ci scatarro su". E non è finita: dall’armadio risbucano fuori anche "La sinfonia dei Topi" (unico inedito pubblicato nell’album live del 2001 "Siam tre piccoli porcellin"), "Voglio una pelle splendida", una "Germi" in cui la voce di Agnelli si fodera di carta vetrata e poi ancora, a dieci anni di distanza esatti dalla sua stesura, l’inquietante e scaramantica "1.9.9.6.". E oltre questo, anche i classici, come "Rapace", "Quello che non c’è", "Bye Bye Bombay" e una versione ubriaca e rallentata di "Male di miele".
E poi, naturalmente, ci sono i pezzi in inglese: pezzi che (sorvolando finalmente per un attimo su tutte le discussioni di carattare prettamente “morale”), superato l’impatto di minore fruibilità rispetto all’italiano, ormai metabolizzati, soprattutto dal gruppo (persino la pronuncia buffa e volutamente slabbrata degli Stati Uniti del Sud voluta da Dulli per Agnelli, trova finalmente una dimensione ideale) rivelano una potenza e un carisma pari alle loro versioni “italiane”. Da "White Widow", passando per "Ballad for My Little Hyena", "Fresh Flesh", "The Thin White Line", "The Ending Is The Greater", "Judah’s Blood" e la conclusiva e vibrante "Andrea’s Birthday" (e peccato non aver potuto ascoltare per intero anche "There’s Many Ways"), gli Afterhours portano in scena con un coraggio e una forza rigeneranti non soltanto delle semplici canzoni, ma un progetto vero e proprio, il cui fulcro è quello che da sempre rende così unico e indispensabile ancora oggi per il panorama italiano un gruppo come quello di Agnelli e che a maggior ragione lascia con l’amaro in bocca quando ci si ritrova in balia di un pubblico forse in parte desensibilizzato o semplicemente indifferente: la voglia di chi, dopo anni di impegno e passione rabbiosa, continua a non desiderare nient’altro che fare musica.
Cala quindi momentaneamente il sipario sui palchi italiani e si alza quello dei palchi internazionali, in particolare di quelli statunitensi, dove ci si augura che il gruppo milanese possa ritrovare una sorta di verginità perduta, proprio attraverso la dimensione che da sempre gli è più congeniale: quella del live, appunto.
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