giovedì, luglio 27, 2006

RECENSIONE DELLA SETTIMANA


TITOLO : Yes, Virginia
AUTORE : Dresden Dolls
GENERE : Punk / cabaret
ANNO : 2006
PROVENIENZA : USA

L’abitudine a dare al sopracciglio la forma del ghirigoro che si preferisce continua ad andare di pari passo alla libera e burlesca interpretazione del mondo, per i Dresden Dolls, anche dopo l’efficace biglietto da visita siglato dalla cifra dell’omonimo album. Forte di un notevole carisma promozionale riempito di una naturale e peculiare energia, incarnata dalla maschera decadente e brechtiana di Amanda Palmer, estrosa pianista sospesa tra l’eleganza dello strumento e una personalità incandescente, perfettamente enfatizzata e abbracciata dalla figura sullo sfondo del batterista/pierrot Brian Viglione, il duo torna in scena con "Yes, Virginia".

Inscatolare il disco in un genere risulta impresa quantomai ardua, data la molteplicità degli spunti e delle suggestioni. Ciò che immediatamente colpisce è un modus assolutamente viscerale di approcciarsi allo strumento, tanto per il pianoforte di Amanda, quanto per la batteria di Brian. Lo scenario è una sorta di teatrino d’avanguardia direttamente restaurato dalla Belle epoque: ci si aspetterebbe una performance à-la Ute Lemper, oppure, ripescando nel passato più immediato, una tragicommedia vicina all’ironia pungente di The Vanity Set, ma niente di tutto questo. Gli ascolti post-punk tradiscono un’energia, un picchiare forsennatamente sul pianoforte e sulla batteria, insieme a un cantato dalla smorfia grottesca e terrorifica, alleggeriti da un piglio esteta e più diretto, rispetto alla ruvidità del grembo progenio.

L’apertura riporta da subito alla mente la forza vitale con la quale Amanda canta e suona il pianoforte, come un moto improvviso con il quale ci si desta e si spalanca ogni finestra, elettrizzati dalla primavera, lasciando entrare tutta la brezza che c’è (“Sex Changes”) e che rivolta l’aria di casa con esagitata freschezza di furiosa voce e iperattiva batteria (“Modern Moonlight”).
Il sipario del cabaret si apre su una ballerina che, strizzata in una guepière , danza intorno a una sedia con ammiccare dietrichiano (“My Alcholic Friends”). Se, prossimi al giro di boa, i toni si addolciscono nel pathos pulsante frammenti di cuore à-la Tori Amos (“First Orgasm” e “Mrs O”), sul finale si torna all’ironia sicura di sé, in un cantato ai limiti della sfacciataggine, dove il tempo è segnato dal ticchettio ruffiano di pianoforte e batteria in un teatrino off (“Mandy Goes To Med School”).

La chiusura rivolta al mondo è, come racconta il video del singolo, un coinvolgente invito al cantare di sé, in ogni sua umana espressione, senza abbandonare la smorfia innocuamente grottesca che rimarca la stupefacente mimica facciale della pianista (”Sing”). L’indulgere all’emotività, che pervade tutto l’album, non toglie il senso del divertissement, capace di ricreare l’improbabile contrasto tra il color seppia di vecchie suggestioni mitteleuropee e il volto del post-moderno americano, così da lasciare che il sopracciglio continui liberamente a seguire il proprio disegno.

MIMMA SCHIROSI