sabato, dicembre 10, 2005

BLACK FLAG history from the beginning....


Il luogo è la California, quella della seconda metà degli anni '70. L'eco è quella delle devastanti performance dei Ramones, e risuona come una chiamata alle armi negli interminabili pomeriggi assolati. Le spiagge immense, le onde minacciose che i surfisti cercano di dominare, la Silicon Valley che inizia a brulicare di programmatori e di appassionati di computer e robotica: in tutto questo bailamme epocale, il punk californiano vive la sua definitiva esplosione.

A Hermosa Beach, il chitarrista Greg Ginn, appena laureatosi all'UCLA, decide di mettere su una band, reclutando Chuck Dukowski (basso), Keith Morris (voce) e Brian Migdol (batteria). Nello stesso tempo, Ginn e Dukowski decidono anche di fondare un'etichetta discografica: nasce così la Sst (Solid State Transformers), destinata a diventare la più importante etichetta indipendente della storia del rock. La filosofia del "do it yourself" di lì a poco vivrà la sua fase culminante (tanto per citare un altro caso eclatante, all'inizio degli anni '80, Ian MacKaye - leader dei seminali Minor Threat e, poi, mente illuminata dei Fugazi - fonderà la "Dischord").

I Black Flag - questo il nome scelto da Ginn per la sua creatura - sono all'inizio una delle tante band di punk-rock che bazzicano i locali del Sunset Strip, in quel di Los Angeles. Qui i concerti finiscono quasi sempre per diventare delle vere e proprie mega-risse, con tanto di intervento della polizia.

Dopo un breve ma intenso periodo di rodaggio, arriva nei negozi l'Ep Nervous Breakdown, numero 001 del catalogo Sst. Siamo nel gennaio 1978. In 5 minuti e 10 secondi, i Black Flag fanno piazza pulita di qualsiasi compromesso, gridando al mondo l'angoscia di vivere, e presentando tutti i caratteri essenziali di quello che sarà definito "beach-punk", ovvero il punk miniaturizzato e nichilista, che aveva dalla sua una inedita componente "sperimentale".

Poco dopo, Morris abbandona la band per fondare i Circle Jerks. A sostituirlo viene chiamato il portoricano Chavo Pederast, che prende parte alle registrazioni del secondo Ep, Jealous Again (1980). Sono i giorni che il film-documentario di Penelope Spheeris, "The Decline Of Western Civilization", renderà immortali. E tali resteranno la violenza e la rabbia con le quali Pederast filtra le mine soniche che Ginn e soci lasciano esplodere senza sosta nei pressi della sua voce.

Ma i mutamenti di organico non sono ancora finiti: Pederast viene sostituito da Dez Cadena, che, però, decide di imbracciare la chitarra, andando a formare con Ginn una delle coppie più affiatate e devastanti dell'epopea punk. Come nuovo cantante, allora, viene scelto un tale che, durante un concerto newyorkese, era salito sul palco per cantare insieme con la band: Henry Rollins, già vocalist dei S.O.A. di Washington Dc. Con Robo alla batteria (subentrato a Migdol dopo la pubblicazione di Nervous Breakdown), i Black Flag sono ormai diventati una perfetta macchina da guerra, pronta a lasciare un segno indelebile nella storia del rock. Per farlo, però, hanno bisogno di un disco epilettico e poetico come solo Damaged (1981) poteva essere.

Oltre ad essere uno dei più grandi dischi "punk" di sempre, Damaged è uno di quei paesaggi immaginari dove capisci che, pur essendo uno schifo abominevole, la vita è pur sempre una cosa meravigliosa. E questo perché nella voce di Rollins, nelle lancinanti progressioni di Ginn o nella ritmica impietosa e mai doma, trovi tutt'altro che angoscia o dolore: trovi il silenzio della tua stanza, il tramonto che codifica scenari impercettibili e tutto quel fottuto andirivieni di ricordi che si danno appuntamento in fondo all'anima, come una congrega di emarginati che non hanno perso la speranza di risollevarsi, un giorno. Damaged è tutto questo, ma non solo. E' anche un pugno nello stomaco per chi crede che il "punk" sia solo casino e imperizia tecnica. Ma chi non ha fatto dei pregiudizi una torre d'avorio in cui rintanarsi, sa che quei due-tre accordi e quelle ritmiche spaccasassi nascono da un bisogno più urgente e più vero di qualsiasi altra masturbazione intellettuale.

A scagliare il primo proiettile ci pensa l'inno scalmanato di "Rise Above", con le chitarre torrenziali e acide della premiata ditta Ginn/Cadena. La voce di Rollins si presenta subito potente e sicura, senza fronzoli. "Spray Paint" è uno dei loro classici punk "tascabili", nello stile miniaturizzato che farà la fortuna dei Minutemen. "Six Pack", introdotta dal basso rutilante di Dukowski, è una slam-dance caotica e ipercinetica, infilzata dalle stilettate lisergiche di Ginn. "What I See" è il segno tangibile che la rabbia che scorre tra questi solchi è di razza purissima: è la rabbia di chi non ha nient'altro da perdere (sentire le urla di Rollins, che cavalcano quell'andatura singhiozzante, fa un certo effetto; e chissà perché tornano alla mente certe immagini di guerriglia urbana, in quel di Genova.). E così, quando arriva "Tv Party", con la sua vena sarcastica e i suoi coretti idioti, ci si sente un tantino spiazzati salvo, poi, concludere che si tratta di une delle loro terribili invettive. A riaccendere la miccia, ci pensano la solita chitarra incendiaria di Ginn e l'urlo sgraziato di Rollins, che preparano l'assalto di "Thirsty And Miserable"; ecco, poi, sopraggiungere il caos supersonico di "Police Story" (con delle progressioni impagabili e furiose) e la selvaggia "Gimmie Gimmie Gimmie", che chiudeva il lato A quando ancora il compact-disc era un miraggio.

Il lato B si apriva con un'altra delle loro slam-dance al cardiopalma, "Depression", con Ginn e Cadena intenti, più che mai, a elaborare la loro sintesi di distorsione e sudore. "Room 13" si arrampica su una chitarra ora stridula ora solenne, mentre Robo, alla batteria, si esibisce in uno spericolato stop-and-go. L'eccezionale lavoro di Ginn diventa ancora più memorabile in "Damaged II", dove si susseguono vortici dissonanti, distorsioni in libera uscita e assoli al fulmicotone. La sua chitarra brucia come il sole della California. "No More" e "Padded Cell" continuano nell'opera di destabilizzazione emotiva, mentre "Life Of Pain", introdotta da vaghi sapori hendrixiani, sembra apparentemente abbassare il livello di guardia. Apparentemente... Chiude l'album, lo psicodramma di "Damaged I", vero tour de force emotivo per un Rollins che sembra un animale in gabbia (si tratta dell'unico brano in cui il Nostro è co-autore, e, non a caso, è proprio qui che è possibile rintracciare il seme della sua carriera solista). Sul passo mid-tempo della batteria, l'uomo di Washington D.C. scioglie il suo ultimo gemito: "Nobody comes in! Damage. My Damage. No one comes in! Stay Out!!!". Ciò che resta è un senso di desolazione estrema, totale.

La grandezza di Damaged è quella di aver elevato, una volta per tutte, l'hardcore a "prospettiva generazionale", di averne fatto quasi un "occhio cinematografico", perennemente rivolto su quella terra, ai limiti del collasso, che è la California a cavallo tra i '70 e gli '80. E' la stessa California che terroristi sonici quali Chrome, Mx-80 Sound o Tuxedomoon stanno sviscerando nel buio delle loro tane.

Dopo aver registrato l'album, la band firmò un contratto con la Unicorn Records, una sussidiaria della Mca. Ma la label si rifiutò di distribuire l'album, sostenendo che il suo contenuto fosse troppo volgare e pericoloso. Senza scoraggiarsi, Ginn decise, così, di pubblicare l'album sulla sua Sst. Sulla copertina venne affisso uno sticker che recitava ironicamente: "Come genitore, credo che questo sia un album contro i genitori".

L'album ottenne ottime recensioni sulla stampa specializzata, mentre la Unicorn denunciava la Sst e i Black Flag. La band fu costretta per i successivi due anni a rinunciare all'uso del proprio nome, ma, nel frattempo, decise di continuare il tour di supporto a Damaged.

Nel 1983, venne dato alle stampe Everything Went Black, una raccolta di materiale inedito e di versioni alternative appartenenti al periodo pre-Rollins. Nello stesso anno, inoltre, la Sst pubblicò l'antologia The First Four Years, che raccoglieva Ep e singoli usciti prima di Damaged.

La causa legale con la Unicorn ebbe fine quando la label andò in bancarotta - e ben gli sta! Intanto, Cadena aveva abbandonato la band, e con esso se ne erano andati anche Dukowski e Robo (quest'ultimo per raggiungere i Misfits). Rollins e Ginn, chiamato alla batteria l'ex Descendents Bill Stevenson, registrano e pubblicano, sempre nel 1983, l'album My War, con Ginn a dividersi tra chitarra e basso. Si tratta di un lavoro irrisolto, a tratti anche noioso. Se la prima parte può vantare una dignitosa title-track e un livello medio discreto, la seconda parte, invece, si perde tra virtuosismi e nonsense chitarristici che cercano di mascherare, in modo del tutto maldestro, un preoccupante calo d'ispirazione.

Il lavoro successivo, Slip It In (1984), riaccende l'interesse intorno alla band californiana, che cerca di trovare nuove strade espressive attraverso una interessantissima sintesi tra l'hardcore più evoluto e certe reminiscenze avanguardistiche. Le influenze maggiori, però, vengono da certo heavy-metal degli anni '70, soprattutto da band quali Black Sabbath e Hawkwind. A ogni buon conto, però, lì dove i nostri falliscono nei loro intenti, ci troviamo di fronte a una semplice quanto poco proficua reiterazione dei classici stilemi del rock più duro. Tra i brani, vanno segnalati almeno "Wound Up", "The Bars" e "Rat's Eyes".

Family Man, dello stesso anno, si presenta come uno dei lavori più sperimentali della band. Una intera facciata è occupata dalle "spoken-words" di Rollins, qui intento a rinverdire gli exploit poetici di Jim Morrison. La seconda facciata, invece, presenta brani strumentali nel nuovo stile sperimentale di Ginn. La musica è vibrante, eccitante, ed è pervasa da una certa attitudine "pop", nel solco di quanto stavano facendo gli Husker Du in quel di Minneapolis (altri problemi causò la copertina dell'album, che raffigurava un uomo con una pistola puntata alla tempia, e la moglie ed i figli massacrati ai suoi piedi).

Loose Nut è il primo dei tre album che la band pubblica nel 1985. Rispetto al precedente, si riconoscono evidenti cali di tensione espressiva, che soltanto in rare occasioni ("This Is Good", "Annichilate This Week") riportano ai climi infuocati di un tempo.

Solo pochi mesi, e In My Head fa riassaporare finalmente quelli che sono i Black Flag più genuini. Denso, potente e senza compromessi, il sound sembra essersi finalmente liberato dagli orpelli sperimentali che avevano finito per sommergere la vitalità della band. Ma è solo un'impressione, perché poco dopo ecco arrivare The Process Of Wedding Out, che, mentre recupera la componente sperimentale, finisce anche per consegnare alla storia del rock un esempio superlativo di jazz-punk, dove i virtuosismi di Ginn hanno finalmente trovato un amalgama prossimo alla perfezione con il resto della band. La violenza esecutiva e l'attitudine ribelle e iconoclasta del punk-hardcore vengono passate al setaccio da strutture armoniche di chiara derivazione jazz. E Ginn e soci (tra cui l'ottima bassista Kira) possono dimostrare, senza remora alcuna, tutto il loro valore di musicisti.

Giusto il tempo di registrare un album dal vivo (Who's Got The 10 1/2 ?), e la stella dei Black Flag smette di brillare. Siamo nel 1986, e Ginn decide di approfondire il nuovo discorso musicale dando vita ai Gone. Rollins, invece, proseguirà con una carriera solista densa di soddisfazioni e di grandi risultati artistici. Ma questa, come si dice, è un'altra storia.