CAT POWER ...gli anni del cambiamento
Cat Power è un'artista affermata e amata da molti, ma spesso le cose cambiano nella carriere di un artista : Federico, chitarrista dei Mlanesissimi SHOCK DOWN e collaboratore MOBSOUND, fa il punto sull'artista con un'anteprima del suo ultimo lavoro...
Visto che ho passato parte delle festività a Londra, è stato praticamente obbligatorio acquistare un bel po' di dischi che ancora in Italia devono arrivare e non ho avuto sempre belle esperienza. L'ultima volta che ho sentito la voce di Cat Power, me la sono ritrovata incazzata e decisa a impormi la sua voglia di libertà attraverso YOU ARE FREE,grande disco del 2003, nel quale la cantante era un misto tra Nico e Patti Smith, ma gli anni passano e alle porte del 2006 la ritrovi con una voce stranamente diversa.
Certo, gli artisti hanno tutto il diritto di mettersi in discussione. Allo stesso modo, però, gli appassionati possono sentirsi più o meno traditi. Non è retorica, è la verità.
Non posso certo dire di essere rimasto delusa dalla nuova Cat, ma sicuramente sono rimasto perplesso nell'ascoltare le note del suo ultimo lavoro, che dopo l'acclamatissimo "You are Free", sembra un po' un divertissement, ma che piano piano cresce, entrando di prepotenza nele orecchie e nell'anima e risultando, tutto sommato un bel disco. Cat si è inventata un'anima vagamente soul, ha giochicchiato con archi, pianoforti scalcinati e chitarre from Memphis, non disegnando certo quel suo delicato folk-blues per cui il mondo ha imparato ad amarla. Insomma, bene, brava, bis!
Circondata, tra gli altri, da musicisti del calibro di Teenie Hodges (chitarra), Leroy Hodges (basso, già alle prese con Al Green e Hi Rhythm Section) e dal batterista Steve Potts, la ragazza della Georgia apre le danze con la ballatona della title-track, pregna di delicata emotività e con la voce adagiata in un letto di archi, mentre tutto plana su dolci accordi pianistici. Si lascia inebriare, poi, dal ciondolare di "Could We", con quei fiati gigioni che escono e rientrano come lame da un muro di gomma.
Alternandosi con fare disinibito, ballate e slanci vibranti vanno a costituire un equilibrio francamente precario. Si susseguono, quindi, "Lived In Bars" (mood moderatamente disperato in chiave soul-jazz), la vellutata elegia di "Islands" e le svagatezze in punta di piedi con tanto di piano honky-tonk di "After It All". Tutto nella norma, tutto sotto controllo, senza esagerare. Ce lo ripetiamo continuamente, tanto che neppure "The Moon", con i suoi toni dimessi, distillati con sapienza da piccoli accenti di organo e da un chitarrismo levigato ma deciso, ci convince. Sarà colpa nostra? Ma come: qualcuno non ha forse già gridato al capolavoro sulla stampa estera?
Ma certo, il folk corretto col blues di "Living Proof" e quello più spiccatamente rock di "Love & Communication" non sono forse capolavori? E che dire della ballata di "Empty Shell", dei sapori autunnali di "Willie" e dello scheletro valzer di "Hate"? Sarà… Eppure, continuiamo a credere che questo sia uno dei peggiori lavori della nostra bella cantautrice. Il che non vuol dire che sia un disco brutto tout court… "Where Is My Love" ce lo conferma, con un colpo di classe finalmente supportato da un'ispirazione degna del passato. Un piccolo vortice emotivo, come un abisso di solitudine ricoperto maldestramente dal drappo nero della malinconia. E' un gioiello da conservare con cura, questo. Per il resto, io vado a riascoltarmi "You are Free"
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