TORNIAMO A PARLARE DI DISCHI CHE HANNO FATTO LA STORIA, RIPORTANDO UN BELL'ARTICOLO DI ONDAROCK SU UN CAPOLAVORO DEI CURE DAL TITOLO DIRETTO, CHE NON LASCIA SPAZIO ALL' IMMAGINA ZIONE E CHE ARRIVA DRITTO AL CUORE DEI FANS : THE PORNOGRAPHY!
Accanto a Ian Curtis, Robert Smith è l'altro grande "spirito guida" della cosiddetta "dark-wave" britannica. I due erano uniti dalle stesse ansie, paranoie e depressioni, ed entrambi in ogni loro opera davano l'impressione di stare soccombendo sotto il peso di un'immane tragedia esistenziale. Ma la differenza fondamentale tra i due sta proprio nel fatto che, mentre Curtis alla sua personale tragedia si arrese senza nemmeno tentare di combattere, Smith ha invece sempre lottato con tutte le sue forze per uscirne. Da qui anche la differente impostazione musicale dei rispettivi gruppi: laddove la musica dei Joy Division era gelida, inerte e di precisione geometrica, quella dei Cure è invece in costante, nevrotico tumulto: Ian Curtis cantava come un robot privato di qualsiasi emotività, il tono di Robert Smith invece era quello di un condannato a morte prossimo all'esecuzione, che cerca ansiosamente una possibile via di fuga. Smith non ha mai avuto la sconvolgente, folle lucidità e la capacità riflessiva di Ian Curtis, ma ha sempre potuto vantare un talento lirico che ha avuto pochi rivali nel rock inglese degli ultimi due decenni: i suoi flussi di coscienza così romantici (nel senso "letterario" del termine), commossi e sconsolati, hanno segnato in profondità le sensibilità di stuoli di "dark-kids".
Dopo una crisi che nei due anni precedenti aveva ridotto la line-up al trio formato da Smith, Simon Gallup (basso e tastiere) e Laurence Tolhurst (batteria), il leader dei Cure riuscì a raggiungere l'apice della sua vena poetica, perfettamente supportato dai due compagni. I tre diedero così vita al loro lavoro più complesso e ambizioso, e ottennero quello che si può definire come il "perfetto" disco dark. Un'opera intimista, emozionante e desolata, che trasuda un senso quasi tangibile di disfacimento e decadenza.
L'attacco di "One Hundred Years" lascia subito col respiro mozzato: l'incedere ossessivo della batteria elettronica, gli spettrali cori delle tastiere, le lancinanti fitte chitarristiche preparano il terreno alla declamazione concitata di uno Smith in piena crisi nervosa, che esordisce con un programmatico "it doesn't matter if we all die". Se "Pornography" è il "perfetto" album dark, allora il suo brano d'apertura può essere tranquillamente considerato la "perfetta" canzone dark. Vi si accavallano rimpianto e sofferenza, ricordi di amori e felicità ormai perduti e visioni di un mondo privo di senso, come ribadito anche dalla successiva "A Short Term Effect", brano meno convulso ma dall'umore ancor più depresso: "A day without substance, a change of thought", proclama Smith, mentre cominciano sempre di più ad affollarsi immagini di morte, tutto sembra essere arrivato alla fine, all'immobilità, al gelo eterno ("no movement, just a falling bird cold as it hits the bleeding ground").
"Creatures kissing in the rain, shapeless, in the dark again" popolano "The Hanging Garden", inquietante visione notturna e invernale, scandita da un frenetico ritmo tribale, esattamente all'opposto della straordinaria "Siamese Twins", danza ipnotica, all'insegna della rarefazione totale, dilatazione estrema del tempo e dello spazio, recitata e suonata come in trance: "I chose an eternity of this, like falling angels / the world disappear laughing into the fire". "Figurhead" e "A Strange Day" riprendono invece la cadenza languida e rilassata di "Short Term Effect", mentre Smith si dimena sempre più delirante, ma anche sempre più sconsolato, ormai circondato dal disfacimento, tormentato da incubi e allucinazioni. È soprattutto negli ultimi brani che uno Smith ispiratissimo distribuisce autentiche perle di poesia decadente ("A Strange Day", con un incipit surreale come "give me your eyes, that i might see the blind man kissing my hands", è esemplare). Ed è a questo punto che intona il suo requiem più doloroso, "Cold": le lunghe, solenni frasi di organo e le folgori elettroniche sorreggono un'impalcatura sonora che più gotica non si può, mentre Smith trova finalmente il coraggio di fronteggiare l'opprimente senso di morte che lo affligge: "Ice in my eyes and eyes like ice don't move / screaming at the moon / another past time/ your name like ice into my heart / everything as cold as life…".
Si finisce così nel gorgo infernale della title-track, introdotta da un coro di voci spettrali, condotta da un crescendo percussivo tribale, indemoniato, apocalittico, in un mare di acutissime distorsioni e imponenti droni elettronici. Ma il brano più inquietante e dissonante è anche quello che riesce a concludere l'album su una nota di lieve speranza: Smith sembra essere riuscito a trovare la giusta dimensione in cui racchiudere le sue psicosi, sempre pericolosamente sull'orlo dell'esplosione ("one more day like this and I'll kill you"), ma perlomeno conscio della sua situazione e pronto a tentare di ritrovare la pace. Non è un caso che la frase posta a sigillo dell'opera sia un altro manifesto programmatico, ma diametralmente opposto a quello d'apertura: "I must fight this sickness, find a cure".