RIECCOCI QUI PER UNA NUOVA, CELEBRE LEZIONE DI STORIA. DA ONDAROCK LA RECENSIONE DEL DISCO PER ANTONOMASIA DEI CLASCH, SIMBOLO DI UNA GENERAZIONE, DI UNA CITTA', DI UN MODO DI PENSARE...
Postumamente eletto dalla celebre rivista americana "Rolling Stone" quale migliore disco degli anni 80, sebbene uscito nel dicembre 1979, "London Calling" rappresentò per i Clash l'album della consacrazione. Terzo della formazione londinese, dopo il fortunato "The Clash" e il meno fortunato "Give 'em enough rope", si presentò, infatti, sin dalla sua uscita sul mercato, come un lavoro maturo, ambizioso, destinato a lasciare il segno nei decenni a venire: un doppio Lp prodotto da Guy Stevens e la cui copertina divenne presto celebre. A proposito di quest'ultima, forse non tutti sanno che si tratta di una citazione di quella del primissimo disco di Elvis Presley, datato 1956. Esattamente vent'anni più tardi, nel 1976, nasceva a Londra il movimento "punk" e i Clash erano quei giovani che in una delle prime canzoni cantavano "no Elvis, Beatles and Rolling Stones".
Tre anni dopo, alla fine del '79, però, dopo lo scioglimento dei Sex Pistols, la morte di Sid Vicious, l'approdo del punk negli States, molte cose erano cambiate; i Clash stessi, che di quel movimento erano rimasti gli ideali portabandiera, cominciarono a mutare fisionomia: dismessi gli abiti punk e lasciata alle spalle una certa dose di ingenuità, i quattro non erano più i "city rockers" degli esordi, ma una formazione matura, in grado di guardare al futuro e, forse per la prima volta, pienamente capace di fare anche i conti con il proprio passato ideale, di recuperare le proprie radici musicali, quelle che la rivoluzione del punk aveva negato nella sua radicale contrapposizione a tutto ciò che l'aveva preceduta. Quella rivoluzione si era esaurita prematuramente perché non aveva saputo costruire o, meglio, non era stata in grado di ricostruire dopo aver distrutto; i Clash al contrario, intraprendendo un cammino personale, ci tentarono e probabilmente ci riuscirono: attraverso un recupero critico del passato, cercarono dei valori per motivare il presente, per poterli poi proiettare nel futuro.
Fin da subito, "London Calling" fu visto come un disco epocale, un vero e proprio spartiacque: sembrava idealmente eletto a sancire la fine gli anni 70, decennio ricco di fermenti, proposte, illusioni, fallimenti, e ad aprire la strada a una nuova decade, per molti versi differente. Un'intera generazione di giovani rockers, all'indomani dell'uscita di "London Calling", percepì, forse già con un pizzico di nostalgia, il definitivo tramonto del movimento punk "storico", ossia di quello che, in buona parte, si era identificato esclusivamente con la storia dei gruppi londinesi che l'avevano generato e alimentato: il punk-rock ormai invece, esportato negli USA e avviatosi verso l'impervia strada dell'autoproduzione, diventava qualcosa di diverso da quello che era stato, e un gruppo come i Dead Kennedys, che si formavano in quegli stessi mesi a San Francisco, appariva molto lontano da Strummer e soci, che pure di quello stesso movimento erano stati, inizialmente, tra i maggiori esponenti.
In "London Calling", a dispetto del titolo, la Londra infuocata del '77, quella della "Westway", dei sobborghi, dei mercati e degli scontri urbani, nonostante venga rievocata in alcuni episodi del disco, sembra ormai distante, e dei 19 (all'origine, 18 più uno nascosto, "Train in vain") brani che compongono l'opera, nemmeno uno solo di essi, musicalmente parlando, può essere più definito "punk", secondo l'accezione alquanto stereotipata che il termine venne ad assumere a partire dall'avvento della "seconda ondata". Eppure, nello stesso tempo, è proprio "London Calling" a rappresentare il vero e definitivo frutto maturo del punk britannico: un capolavoro che non sarebbe stato possibile senza quella esperienza e che, pur di essa superandone tutti i limiti, ne traghetta lo spirito essenziale nel panorama rock dei decenni a venire.
E' con questa sospensione tra passato, presente e futuro, che bisogna leggere il disco, a cominciare dalla sua storica copertina e al suo richiamarsi a quella dell'esordio di Elvis. Se messe a confronto, le due cover presentano la medesima grafica adoperata per le parole e gli stessi colori; allo stesso modo, in entrambe campeggia una foto in bianco e nero scattata durante un'esibizione live. Se dunque colpisce questa dichiarata similarità che assume la valenza dell'omaggio a un inossidabile mito americano, dall'altro lato, è proprio l'analogia stessa a mettere in risalto quello che sembrerebbe un contrasto stridente: la foto della copertina ispiratrice ritrae un Elvis mentre canta e suona imbracciando la propria chitarra; l'altra, al contrario, immortala il bassista dei Clash, Paul Simonon, nell'atto di infrangere con rabbia il suo strumento al suolo durante un concerto al Palladium di New York. Un contrasto molto ricercato per significare lo scontro generazionale, quello su cui il movimento punk aveva fondato il proprio credo (e, dunque, ecco motivato il riferimento 1956-1976). Ma, al medesimo tempo, l'intento citazionista porta con sé anche il segno del cambiamento, della maturazione, del cambio di prospettiva: manifesta un desiderio di pacificazione, di riassorbimento del contrasto stesso, che si traduce in un recupero del proprio passato ideale e in una sua rilettura in chiave moderna, tanto da costituire un modello per le generazioni future. C'è tutto questo nella copertina e, forse anche molto altro (come un saggio esemplare del contraddittorio rapporto di odio/amore dei Clash nei confronti degli States); la sua grande efficacia comunicativa è riposta probabilmente proprio nella sua vaga contraddittorietà e nel suo non privilegiare una "chiave di lettura": può essere letta come un tributo ad Elvis e al rock 'n' roll, e sicuramente lo è; ma forse contiene implicita anche una sottile denigrazione nei confronti di un "sacro" del rock americano e quindi dell'immaginario collettivo statunitense? Oppure, perché no, possono esser vere entrambe le cose insieme: da qui la complessità e, dunque, il fascino di quell'immagine; il suo oscillare tra passato, presente e futuro, come i Clash stessi in quei mesi di transizione. Ma, allorché "London Calling" assunse ben presto lo spessore di un vero classico del rock, la stessa copertina finì per diventare, paradossalmente, più famosa e addirittura più "classica" dell'ispiratrice.
Con "London Calling", per la seconda volta (dopo aver nel '77 firmato per la Cbs), i Clash si trovavano di fronte una scelta decisiva la quale, se allontanò i vecchi fan più oltranzisti, che si sentirono traditi da una band accusata di esser divenuta "conservatrice", di essersi venduta al mercato e di aver assunto atteggiamenti da rockstar, si sarebbe dimostrata pienamente ricompensata non solo dal grande consenso di pubblico e critica che l'album ottenne sia in patria sia all'estero ma, a posteriori, dalla sua longevità, dalla sua modernità e dalla grande lezione che se ne trasse. Se "London Calling" venne accolto come un capolavoro, basta poco per accorgersi che in questo disco, rispetto ai precedenti, la maturazione della band è davvero notevole: i Clash attraversavano un periodo di straordinario equilibrio, che in parte non avrebbero ritrovato con il successivo "Sandinista!" né, sicuramente, in "Combat Rock", e cominciavano a costituire un valido punto di riferimento e un modello ispiratore per molte formazioni, anche parecchio differenti tra loro, che in quegli anni muovevano i primi passi: a cominciare dai Pogues di Shane MacGowan, fino addirittura agli U2; per poi esercitare la loro influenza, più o meno direttamente, su tanti gruppi degli anni 90.
Seppur sempre molto lontani da qualunque formalismo, i Clash di "London Calling" appaiono notevolmente cresciuti da un punto di vista strettamente musicale; a cominciare, ovviamente, dalla coppia Strummer-Jones che, in questo disco, regala alla posterità molti tra i brani dei Clash migliori di sempre: Joe Strummer vive un grande momento di ispirazione e acquista una sua vena poetica; Mick Jones si dimostra un eccellente compositore con una quasi maniacale cura degli arrangiamenti, oltre che rivelarsi alla voce perfettamente intercambiabile con Strummer: i brani più "pubblici" e militanti sono quelli adatti alla voce di Joe, i momenti più "privati" e intimistici, invece a quella, molto diversa, di Mick. Ma è anche grazie alla solidità della sezione ritmica che i Clash riescono a ottenere i più alti risultati; spesso si trascura l'importanza che, sin dagli inizi, ebbe per il gruppo un batterista come Topper Headon, musicista alquanto tecnico e con una formazione jazz alle spalle, e che in "London Calling" diede anche prova della propria creatività. Al basso, Paul Simonon è maturato anche mediante il contatto con influenze musicali diverse, molte delle quali fu proprio egli a introdurre nel repertorio della band. Infine, in "London Calling" fanno la loro comparsa anche altri strumenti, adesso divenuti indispensabili: primi fra tutti, fiati e percussioni; episodicamente, anche pianoforte e organetto.
Se è quindi evidente che i Clash danno vita ad un album che si distacca dai precedenti, non bisogna però commettere l'errore di vedere, come spesso si fa, una netta cesura con il passato: il gruppo, infatti, non rinuncia a nessuna delle proprie caratteristiche iniziali; matura e si evolve, ma senza mai smentirsi. "London Calling", anzi, è proprio il disco che esalta maggiormente una grande qualità che i Clash hanno sempre posseduto, quella che ha fatto sì che non abbiano mai scritto due canzoni che si assomigliassero tra loro: la varietà. Varietà di timbri innanzitutto, con la già menzionata alternanza alla voce di Strummer e Jones (in alcuni brani, anche con la compresenza di entrambi, in dialogo), e fantasia compositiva. La versatilità che ne deriva è quella che probabilmente costituisce la maggiore risorsa della band, sin dagli esordi e lungo tutto l'arco della sua carriera; a partire da "London Calling", come detto, è semmai esaltata maggiormente: persino il bassista Simonon, infatti, è preposto alla voce in un episodio.
Ma, se nel disco questa varietà "strutturale" della band si accentua, essa poi si sposa egregiamente con un'altra forma di varietà che costituisce la vera cifra stilistica dell'opera. Ciò che veramente affascina in questo album, e che ne rappresenta la novità, è infatti la grande pluralità di generi e sotto-generi, di influenze, ritmi, culture e sotto-culture che vengono messe insieme: si va dal rock "puro", per così dire, di "London Calling" o di "Death or glory", al vulcanico rock'n'roll di "Brand new Cadillac", rilettura in perfetto stile Clash di un originale dei 60 firmato Vince Taylor; dall'autentico reggae di "Revolution rock" e quello clashiano, ma non per questo meno "autentico", di "The guns of Brixton", fino al modernissimo, anticipatore di molte tendenze, palpitante emo-pop di "Lost in the supermarket"; passando per le sonorità jazzate di "Jimmy jazz", per lo ska di "Wrong'em Boyo", per il funk-ska di "Rudie can't fail"; e c'è davvero ancora tanto altro da scoprire tra una canzone e l'altra.
All'interno di uno stesso brano, inoltre, sono presenti tanti "motivi" diversi, a volte anche solo un certo riff o un particolare timbro, come certi lontani riverberi di instrumental-surf in "Brand new Cadillac" e "I'm not down" o certi echi latino-americani in "Spanish bombs", che rendono ancora più difficile, ammesso che sia possibile, una "pura" attribuzione di genere. I generi sembrano infatti fondersi, confondersi, per poi magari scoprire di possedere delle radici comuni, come le possiedono le culture che ne stanno alla base. Il risultato di questa grande varietà non è però, come si potrebbe pensare, una commistione dispersiva, confusa o poco creativa: al contrario, i Clash riescono a sintetizzare una serie di istanze diverse, a coglierne un'anima comune e, rileggendole in chiave moderna, le rendono inconfondibilmente "Clash sound"; né si pensi che lo scopo sia, in alcun modo, un nostalgico "tuffo nel passato": è solo il presente e il futuro che la formazione ha veramente a cuore.
Infine, quella della band non fu certo una scelta dettata da una qualche prospettiva commerciale, come accadde invece per altri gruppi, ad esempio i Police, che, dietro la scia degli stessi Clash, mescolarono sonorità diverse, ma forse più per vendere copie che per un'autentica vocazione. Al contrario, per i Clash non si trattava di una totale novità o un radicale cambio di prospettiva rispetto al passato: fin dagli esordi, infatti, si erano misurati con il repertorio reggae e avevano dato vita, primi in assoluto, a un singolare connubio tra punk-rock e reggae (lo stesso Bob Marley li omaggiò, citandoli in "Punky reggae party"). Adesso, gli orizzonti musicali del quartetto sembravano aprirsi ancora di più: al già sperimentato reggae, si affiancava il recupero del rock'n'roll nella sua vena più genuina, ma anche altre sonorità e influenze differenti tra loro. Non si dimentichi, poi, che i Clash sono stati tra i pionieri nel recupero di generi e sotto-generi nati negli anni 50, e negli anni 70 attraversanti alterne fortune, come il "rockabilly" o lo "ska", e nella loro reintegrazione nel rock contemporaneo, determinando quella commistione di generi molto viva ancora oggi in diversi ambienti rock, alternativo e non.
Quello che è fondamentale è che in "London Calling" i Clash non andavano solo alla ricerca di quelle che ritenevano essere le proprie origini ma, spinti da una passione per l'intero fenomeno "rock" nella sua complessità, ne tentarono addirittura una personale genealogia, recuperandone anche quelle che sono le radici nere e che il punk aveva misconosciuto, generando spesso anche forme di ambiguità politica. In quanto ai Clash, nonostante qualche episodico fraintendimento determinato da rari estremismi e da alcuni atteggiamenti "militaristi", non ebbero mai con sé alcuna ambiguità politica. A dispetto dell'ostilità ricevuta sia da parte dei vecchi punk nostalgici sia dei nuovi punk statunitensi, la formazione non dimenticò mai le proprie origini "dal basso" e non perse il contatto con il proprio pubblico: significativa, tra le altre, la scelta di vendere il doppio lp al prezzo di un normale.
Sul versante dei testi e dell'impegno sociale, poi, i Clash non rinunciarono al proprio caratteristico "realismo", né arrestarono minimamente la propria militanza di band impegnata. Pur non sottomettendo mai le "ragioni musicali", anzi in perfetto accordo con esse, infatti, temi sociali sono presenti in tutto il disco: a cominciare da "London Calling", il brano che, oltre darne il nome, apre l'album; ma che apre anche la strada del decennio alle porte, di cui sembra prevederne molte inquietudini (pochi anni dopo, seppur parecchio lontano, Chernobyl, quell'allucinante e apocalittico "nuclear error" che nella canzone si immaginava, sarebbe diventata triste realtà dando vita a uno dei maggiori disastri ecologici dei nostri tempi); "Spanish bombs", una ballata scandita dal raffinato "duetto" Strummer-Jones, recupera le sbiadite, ma ancora impresse, memorie della guerra civile di Spagna; "The right profile" è dedicata alla memoria dell'attore Montgomery Clift, uno dei "belli e dannati" della vecchia Hollywood; in "The guns of Brixton", il messaggio sociale è affidato alle sonorità del reggae, che in questo brano fa risuonare le sue corde più cupe ed è reso ancora più pregnante e autentico dalla voce del bassista Simonon, nato proprio a Brixton, quartiere londinese simbolo delle lotte della comunità "black"; nella splendida "Lost in the supermarket", affidata invece alla voce di Jones, il delicato ricordo di un'ordinaria esistenza vissuta nel grigiume di una periferia londinese diventa la commossa denuncia dell'alienazione e della solitudine dell'individuo nella società dei consumi e dell'urbanizzazione; l'antiamericanismo di "Koka Kola" è l'altra faccia di quello che è generalmente considerato l'album "americano" dei Clash; "I'm not down", già dal titolo, rende l'idea di quanto sia ormai distante il nichilismo della "blank generation". E la cover di "Revolution rock" affida ancora una volta al reggae l'invocazione per un "rock rivoluzionario". Come lo fu sempre quello dei Clash e, ancor di più, forse proprio nel momento in cui sembrò che voltassero le spalle al passato.
Se la loro rivoluzione non portava più il nome di "punk", era perché quel movimento, nella forma in cui era nato, aveva ormai concluso il suo corso: i nostri non lo rinnegarono, né lo tradirono, ma compresero che, per mantenerne davvero vivo lo spirito, era necessario superarne i limiti, musicali e intellettuali, troppo angusti in cui era stato ridotto. Se però "punk", come alle origini, è chi non accetta le convenzioni e le aspettative che la propria comunità impone, i Clash continuarono a esserlo proprio nel rifiutarsi di accettare una qualsiasi formula standardizzata e limitativa, nel non essere mai quello che ci si sarebbe aspettati, o che si sarebbe voluto, che fossero: dimostrando che l'attitudine va ben oltre la semplice accettazione di un canone, insegnarono che se si ama veramente la musica, non si possono mettere ostacoli di nessun genere al proprio talento. Ecco perché i Clash, che del punk non furono figli ma tra i padri stessi, non considerarono mai questo come un genere o una sottocultura rock, ma dimostrarono invece che, se per alcuni quel movimento era stato solo una "truffa" oppure una forma di cieca distruzione fine a se stessa, per altri invece, per loro, scaturiva da una sincera passione per il rock e dalla condivisione di una serie di valori che esso, ai loro occhi, era in grado di veicolare alle generazioni future, come aveva fatto nei confronti di quelle passate.
Joe Strummer e Mick Jones: due personalità e due talenti diversi per natura, spesso difficili da conciliare, ma che, finché si trovarono uniti in un progetto comune, diedero vita ad una coppia straordinaria, la quale, per diversi motivi, nel rock inglese è paragonabile solo a quella Lennon/McCartney. Quest'ultimo punto deve fare riflettere: se il vero scopo di fondo di quella rivoluzione musicale che, nella seconda metà degli anni 70, prese il nome di "punk" era stato, per molti versi, quello di dar vita a un nuovo rock d'oltremanica che si affrancasse dall'eredità beatlesiana, furono i Clash e solo loro, proprio nella maturazione e nel superamento dello stesso "punk" nei suoi limiti culturali, nei suoi canoni musicali e in tutte le sue contingenze storiche, a realizzarlo veramente. A partire da "London Calling", infatti, dopo l'epoca "d'oro" di Beatles, Stones e Who, i Clash vanno ricordati come quella che è stata, con ogni probabilità, la più importante formazione britannica nella storia del rock contemporaneo.