venerdì, settembre 29, 2006

CLUB DOGO : Cinema Hard vs Hip Hop


...ovvero quando il cinema hard incontra la musica rap.
Come negli Stati Uniti, anche in Italia capita che i due mondi si incorcino, almeno stando a quel che c'è scritto sul sito ufficiale dei Club Dogo :
"I Club Dogo, dopo essere stati invitati alla manifestazione nazionale sul cinema hard più importante a livello nazionale,il Misex, e avere incontrato Silvio Bandinelli, regista leggendario dell'hard italiano, parteciperanno al nuovo film di Matteo Swaitz ambientato nelle periferie metropolitane e nel mondo del rap".

Il gruppo Hip Hop milanese sarà di scena questa sera al Rolling Stone, per uno show che si preannuncia di alto livello, come sempre quando i ragazzi si esibiscono nella loro città...

RECENSIONE DELLA SETTIMANA



TITOLO : Shot to hell
ARTISTA : Black Label Society
GENERE : Hard Rock/ Metal
PROVENIENZA : New Jersey (USA)
ANNO : 2006

Zakk Wylde è un’artista molto prolifico, oltre alla sua secolare collaborazione con la leggenda Ozzy Osbourne, riesce a gestire la sua creatura Black Label Society senza nessuna difficoltà, pubblicando con cadenza regolare dischi di grande spessore per veri amanti del rock. Ad un anno esatto dal buon “Mafia”, il chitarrista si rifà vivo con “Shot To Hell”, un lavoro che rispetto al suo predecessore imbocca strade più melodiche e leggere senza comunque perdere il tipico trademark della band. Se “Mafia” ci aveva colpito per un songwriting discretamente ispirato ed efficace, altrettanto non si può dire dei nuovi pezzi: i più aggressivi, come “Black Mass Revenge” o “Blacked Out World”, pur mostrando tutta la potenza dei Black Label Society non fanno gridare al miracolo, paradossalmente Zakk e compagni danno il loro meglio nelle numerose ballad presenti. “The Last Goodbye” e “Sick Of It All” si rivelano indubbiamente i lentoni più riusciti dell’intero lavoro, non a caso da sempre il braccio destro di Ozzy riesce a stupire per il suo gusto melodico e per le atmosfere che riesce a creare con la sua particolare voce. “Shot To Hell” non può definirsi un disco di puro heavy metal in virtù del fatto che i capitoli più soft predominano (soprattutto per qualità) rispetto alle canzoni più tradizionali. Chi ha amato la forza di “Mafia” potrebbe rimanere deluso dalla nuova release degli americani, ma con qualche ascolto i buoni spunti della musica firmata Black Label Society verranno fuori senza ombra di dubbio. (Recensione tratta da metalitalia)

giovedì, settembre 28, 2006

VASCO e la pubblicità...


DAL SITO UFFICIALE DI VASCO, IL SUO COMUNICATO IN CUI CHIUDE OGNI SUO RAPPORTO CON IL MONDO DELLE PUBBLICITA'...

…In principio fu Vodafone…
Con le sue colossali campagne pubblicitarie capaci di lanciare e di far conoscere nuovi artisti e talenti (Dandy Warhol o, Luna pop ecc.) con un’efficacia cento volte più potente di una qualsiasi normale promozione discografica.
Confesso di aver pensato che avrebbe potuto essere un’idea interessante “prestare”, per tre mesi, una mia canzone nuova - “Come Stai”- in occasione dell’uscita dell’ album, sostituendo così la “solita” promozione televisiva e radiofonica.
Presto mi resi conto di avere commesso due errori.
Primo: il concetto della canzone veniva ridotto e in qualche modo distorto, piegato in favore di un prodotto in vendita.
Secondo: la campagna era talmente ossessiva e martellante da finire per trasformare il significato, per me profondo e provocatorio della canzone in un… motivetto orecchiabile e leggero.
In ultimo, probabilmente avevo sottovalutato la popolarità di vascorossi che non aveva bisogno di una esposizione così martellante e prepotente.

Ne presi atto e, perciò, rifiutai decisamente la proposta di vodafone di utilizzare un’altra canzone dell’album BUONI o CATTIVI. Mi rassegnai al fatto compiuto, che oramai
“come stai?…ti distingui dal luogo comune…”
potesse essere associato all’ essere clienti di una determinata compagnia telefonica o al possesso di un telefonino con qualche funzione in più.
(…per fortuna non è andata così…)

Poi arrivò la FIAT, il marchio nazionale per eccellenza che chiedeva rispettosamente di usare il concetto di SENZA PAROLE (“ho guardato dentro un’emozione e ci ho visto dentro tanto amore, che ho capito perché non si comanda al cuore”)
per pubblicizzare la nuova Punto e rilanciare il marchio “attraverso una canzone e un personaggio tanto vicino ai giovani”.
La campagna, mi venne precisato, sarebbe stata meno martellante e lo spot era molto bello. Lo speaker non copriva mai le parole e il concetto di emozione che non fa ragionare e che comanda al cuore mi sembrava correttamente sottolineato anche attraverso le immagini di una spensierata corsa in automobile.
Pensavo che non fosse stata fatta violenza alla canzone e al suo significato e che anzi lo spot la valorizzasse.
Quando mi fu chiesto REWIND, però, cominciai a pensare che ogni gioco è bello finchè dura poco. Ero tentato di rifiutare. Poi visionai lo spot: era molto originale e ben fatto anche se il concetto che usciva dalle immagini legate al testo cominciava a risultarmi un tantino riduttivo. “perché tu vai, vai veloce come il vento” nella mia canzone significa
velocità di “cervello”, non di velocità in senso fisico, di una automobile! Qui cominciò ad incrinarsi la mia speranza che la pubblicità potesse diventare uno strumento valido per diffondere l’emozione di una mia canzone. Ero sempre più convinto, invece, che le parole e il senso venivano forzatamente piegati all’unico scopo di vendere il prodotto. E la cosa mi piaceva sempre di meno.
Quando è arrivata la richiesta di utilizzare anche TI PRENDO E TI PORTO VIA non ho neanche voluto vedere lo spot.

Solo all’idea che “ti prendo e ti porto via” potesse essere interpretata …su “un’ automobile” invece che “sulla coda di una cometa”, mi veniva il vomito.
Avevo improvvisamente realizzato che non sono più disposto ad accettare che una mia canzone venga manipolata per un’interpretazione diversa da quella “ideale”, quella che ognuno sente con l’immaginazione nel proprio cuore.
Le emozioni e i sogni dei miei fans meritano rispetto.

Ecco perché non ho più dato il mio consenso.

Un’ultima considerazione:
Non ho niente contro la pubblicità anche se non l’ho mai amata.
La considero una forma di comunicazione destinata a creare un bisogno in più da soddisfare e a generare quindi frustrazione.
Come molti la ritengo un male necessario e certamente nel mondo c’è di peggio.
Forse può anche aiutare a far conoscere e divulgare la produzione di un artista sconosciuto e di talento.
Ma Questo non è il mio caso.

Non ho più intenzione di lasciare che le mie canzoni vengano utilizzate per veicolare messaggi commerciali e d’ora in avanti per quanto mi sarà possibile cercherò di difenderle.
È sbagliando che imparo…
Come sempre.

Vasco Rossi

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LIVE REPORT : ENZO JANNACCI - Milano, Teatro Piccolo (24/9/2006)


SI E' CONCLUSA DOMENICA UNA SETTIMANA IN CUI ENZO JANNACCI, HA DELIZIATO IL PUBBLICO MILANESE CON UNO SPETTACOLO DEGNO DEI SUOI MOMENTI MIGLIORI.
DIFFERENTMUSIC ERA PRESENTE ALL'ULTIMA USCITA DEL CANTAUTORE, RACCONTATACI QUI DI SEGUITO, DAL NOSTRO ESPERTO "PRESENZA"...

Non capita spesso d'imbattersi in uno spettacolo in cui si mischino satira,musica di qualità e continui rimandi alla tradizione popolare milanese,ma se il nome in cartellone é Enzo Jannacci tutto questo prende corpo nella cornice d'un ambiente in cui i fronzoli son messi al bando.

Avvalendosi del supporto d'un ensemble di strumentisti di prim'ordine,lo storico cantautore intrattiene il pubblico rendendolo partecipe delle proprie riflessioni,mai banali,sulla società contemporanea.
Il tono di tutto ciò mantiene sempre un giusto equilibrio tra i momenti compassati e quelli ironici,evitando accuratamente d'esaminare tematiche degne di nota con la seriosità a cui siam troppo spesso abituati. Questo percorso si snoda tra l'esecuzione di brani tra i più conosciuti come El portava i scarp del tennis,monologhi sulle esperienze personali in ambito
lavorativo e più strettamente umano fino alle toccanti Ma Mi e 6 minuti all'alba.

Momenti particolarmente divertenti risultano il duetto al pianoforte in
compagnia del figlio Paolo e l'interpretazione di Ho visto un re,che conclude
oltre due ore d'una rappresentazione in cui il buon Enzo ha reso una perfetta
immagine di quella mentalità da vecchia Milano a noi tanto cara.

mercoledì, settembre 27, 2006

COURTNEY LOVE : Una riot girl da bruciare


DA ONDAROCK UN BELL'ARTICOLO DI TOMMASO FRANCI SULLA DISCUSSA VEDOVA COBAIN, CAPACE DI DARE SPETTACOLO E FARE NOTIZIA, NEL BENE E NEL MALE SUL PALCO... MA SOPRATTUTTO NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI...

Quello delle riot grrrl a inizio anni Novanta fu prima di tutto un movimento socio-politico. Poi anche musicale. Proprio come l'hippie di 25 anni prima; entrambi, tra l'altro, di San Francisco. La musica riot fu il grunge come quella hippie era stato l'acid-rock psichedelico. Quella riot e quella hippie è quindi musica da centro sociale (anche se non è vero l'inverso: che il grunge e l'acid-rock psichedelico siano solo musica da centro sociale). Il punto è che mentre le questioni sociali degli hippie erano incentrate su questioni utopiche e speranzose nel futuro (e droghe, potere dei fiori, sesso libero, pacifismo ne erano il contorno), quelle delle riot grrrl erano sì questioni altrettanto sintomatologicamente sociali, ma di una società che ormai, essendo inequivocabilmente grigiore, alienazione e nichilismo, non poteva che sterilizzare a priori ogni barlume di utopismo revival.
Per quanto riguarda ulteriori aspetti del movimento riot grrrl rimando alle mie schede sul grunge e sulle Babes in Toyland. Per quanto riguarda le Hole basterebbe dire che furono tra le fondatrici del movimento.
Courtney Love è una pessima compositrice e un'ancor più pessima chitarrista. Courtney Love non fa arte, non fa rock in quanto questo possa dirsi arte. Il suo è uno sfogo, che dal personale e dall'alienazione della persona passa al propagandistico e all'alienazione se non di una generazione almeno di un certo contesto storico-geografico peculiare. In questo rientra poi anche il discorso sui sessi (e sul rapporto uomo/donna) in un continuo altalenare dal piano sociologico (storico) a quello antropologico (naturale). Gruppi come le Hole sono più importanti a livello storico-sociale che a livello musicale. Restando in questo, possono dirsi tra le prime interpreti del grunge al femminile. E sebbene del tutto inferiori alle Babes In Toyland, ebbero una parte, furono una cinghia di connessione tra le prime hard-rocker al femminile del post-new wave (Frightwig e L7) e lo spicinio di inutili band riot grrrl degli anni Novanta.

Nessuna canzone delle Hole rimarrà nella storia. Quelle del 1991 perché non sono canzoni ma conati di vomito irrefrenabili. Quelle del 1994 perché sono tra la canzone e il vomito senza essere incisive né nell'una né nell'altro. Quelle del 1998 perché sono canzoni stupide e insignificanti. Se è vero che nella storia sono rimaste molte canzoni stupide e insignificanti (anzi, forse le più sono tali), è anche vero, da una parte, che mi riferivo alla storia non delle vendite ma dell'importanza artistica, dall'altra che nessuna canzone delle Hole rimarrà neanche nella storia delle vendite e neanche tra le canzonette, perché non possono vantare nemmeno un qualche motivetto capace di entrare nella testa o essere fischiettato.
Il meglio le Hole lo danno quando vomitano. E qui sta il loro senso: non nel fare musica, ma nell'esprimere il nichilismo brutale e angosciato di una fetta di mondo piena di giovanissime ragazze senza soldi, senza futuro, senza sentimenti veri, senza cultura, senza voglia di vivere. Quella fetta di mondo geograficamente e storicamente sarà rappresentata dalla West Coast americana e segnatamente dalla zona di San-Francisco/Seattle a inizio anni Novanta; idealmente da tutte le sacche di depressione giovanile - e soprattutto femminile - disperse per il mondo nell'era post-ideologica o post-industriale che dir si voglia.

Le Hole vomitano in Pretty On The Inside. E questo è il loro testamento valevole per gli studi culturali (se non musicali) avvenire. L'album è mal composto e peggio suonato. Davvero nessuno qui è in grado di tenere in mano quello che dovrebbe essere il suo strumento. Anche la produzione (nientepopodimeno che Kim Gordon) lascia a desiderare. Così il mixaggio. Ebbene, tutto ciò fa buon gioco all'efficacia e alla peculiarità di un lavoro che si regge totalmente (come già era accaduto per le Frightwig, ma anche, in parte, per le Babes In Toyland) sulla voce della Love. Costei urla, urla sino allo sfinimento e senza interruzione. A tratti terribile - pur mai (la sua struttura toracica non glielo consente!) così potente come Kat Bjelland. Si rasenta il death-metal (quello che raggiunse la grande Wendy Williams dei Plasmatics a inizio 80: fu lei la maestra di tutte).
Il 1991 è un anno tra i più ricchi della storia del rock. Lasciando da parte Type O Negative, Dogbowl, Unsane, Honeymoon Killers, Slowdive, Barkmarket, Codeine, Eden, Paradise Lost, Melvins, Mudhoney, Cypress Hill, Massive Attack, Primal Scream, Savatage e moltissimi altri, è l'anno di Drive Like Jehu ("Drive Like Jehu"), Fugazi ("Steady Diet Of Nothing"), Jesus Lizard ("Goat"), My Bloody Valentine ("Loveless"), Slint ("Spiderland"), Pearl Jam ("Ten"), Metallica ("Metallica"), Mercury Rev ("Yerself Is Steam"), Pegboy ("Strong Reaction") - per la musica più mainstream si ricordi che il '91 è l'anno degli hit "One" (U2), "Losing My Religion" (REM), "Under The Bridge" (Red Hot Chili Peppers), "Don't Cry" e "November Rain" (Guns n' Roses), "The Show Must Go On" (Queen), "Nothing Else Matters" (Metallica), "All This Time" (Sting), "More Than Words" (Extreme), "Wind Of Change" (Scorpions) -. In ogni caso il 1991 è soprattutto l'anno di "Nevermind" dei Nirvana. Ed è l'anno del debutto su Lp delle Hole.

Pretty On The Inside è davvero un disco ostico ed estremo. Esasperazione, noia, schifo, disarmonia e distonia abbrutite e appesantite sono le sue coordinate.
La bionda, ammaliante Courtney Love (n. 1964, San Francisco) dopo un'adolescenza sconclusionata - comunque incline all'esibizionismo (fa la spogliarellista in Alaska) - e genericamente dedita al sogno di diventare una star (fa una comparsa nei film "Sid And Nancy" e "Straight To Hell") tra il 1986 e il 1987 fu - prima a San Francisco poi a Minneapolis - al seguito di Kat Bjelland nel periodo proto-Babes in Toyland (giovanissima, intorno all'85, a San Francisco aveva lavorato anche con quelli che poi saranno i Faith No More). Così dette una sterzata decisiva alla sua vita che concentrò su quel punk-rock da lei sempre osannato (forse più per lo stile di vita che per la musica). Lasciatasi con Kat Bjelland (in una delle separazioni più spiacevoli della storia del rock: anche se dovuta forse al fatto che entrambe cantavano, suonavano la chitarra ed erano leader nate) a Los Angeles nel 1989, fondò le Hole: Eric Erlandson (guitar), Jill Emery (bass), Caroline Rue (drums). Aveva 25 anni. A 27 riuscì nella pubblicazione di Pretty On The Inside. E del medesimo periodo è la convivenza col ventiquattrenne Kurt Cobain (i due si sposeranno nel '92).
Complessivamente le Hole possono dirsi la versione pop delle Babes in Toyland: dai ringhi della Love, ai tribalismi della batteria, alle scordature delle chitarre (sistematicamente ignoranti di riff), alle claustrofobie del basso. Su di una struttura musicale sostanzialmente lenta (doom) e gracile (deforme), si innalza una voce bestiale che è la chiave di volta, la dittatrice, il senso del tutto. Pretty On The Inside è poi il loro miglior album proprio perché è quello più vicino al modello delle Babes In Toyland. Il carattere della Love in questo lavoro si distingue però rispetto a quello di Kat Bjelland. E questo a prescindere dalla similarità delle forme. Tanto disperate e tragiche le Babes In Toyland, quanto apatiche, trapassate le Hole. Se le prime urlano perché stanno male, le seconde perché sono nel più totale nulla. Pretty On The Inside è uno dei manifesti nichilisti più radicali del rock; e tanto più radicale quanto più fatto da musicisti e compositori insussistenti. Abbiamo brani di ampio respiro, selve di perdizione e impaludamento totali: "Good Sister/Bad Sister" [- 5:47] è basato su un plagio delle Babes in Toyland (soprattutto il caratteristico doom singhiozzante, seppur smorzato da certo incedere velocizzato); "Mrs. Jones" [- 5:25] delira, in un ballabile, per quello che può, anche se non può molto visto l'inestetismo del titolo; "Babydoll" [- 4:59] - dal nome di uno dei complessi di Love/Bjelland - è tra bisbigli asmatico-sessuali e squarci d'urla graffianti; "Pretty On The Inside/Clouds" [- 5:25], il meglio del lotto, è dato da eccessi rap-metal e strascichi di chitarra Sonic Youth; "Loaded" [- 4:19] se è nelle chitarre succube dei Sonic Youth, ritmicamente strizza l'occhio al punk-dance dei Blondie. Abbiamo tre rituali di media lunghezza e immediata efficacia: "Teenage Whore" [- 2:57], con la classica altalena (ritmica) tra l'incredulità neniosa e la violenza più raccapricciante; "Garbage Man" [- 3:19] - il capolavoro - dove spunta nel marasma di incespicare, stordimenti e cuspidi, un cenno di melodismo (comunque deturpato a più non posso); "Berry" [- 2:46] riesce a ricordare anche gli Stooges (altro complesso basato non tanto sulla violenza della musica, ma su quella della voce) tanto è veemente, senza redini, accasciato su stesso. Abbiamo infine indugi sperimentali: "Sassy" [- 1:43] è pura cacofonia, "Starbelly" [- 1:46] vede finalmente una sezione ritmica squadrata, incorpora sovraregistrazioni varie (sottoforma di radio che cambia stazione), ha chitarre esattamente come quelle dei nostri Marlene Kuntz (ossia come dei Sonic Youth semplificati).
Oltre che dalla Sonic Youth Kim Gordon, l'album fu prodotto dall'amico di questa Dom Fleming (ex Velvet Monkeys, BALL, Halph Japanese, e una delle istituzioni dell'indie-rock, avendo lavorato anche con Dinosaur Jr., Sonic Youth, con l'ex-Velvet Underground Moe Tucker ecc.).

Nel 1994, una settimana dopo il suicidio di Cobain, esce Live Through This. Le Hole sono un altro gruppo. Non solo perché al basso abbiamo Kristen Pfaff e alla batteria Patty Schemel. Prima la musica delle Hole era cacofonia. Ora è grunge-pop. Courtney Love ha 30 anni, è madre, continua a essere tossicodipendente e vuole provare a scrivere canzoni (sulle orme del marito: come testimonia il cambiamento della voce che pur urlando adesso è impostata, non sublime allo sbaraglio come prima). Più di tutto, però, tiene nell'armadio il fantasma a lei più caro: lo star-system. Forse riuscirà solo su quest'ultimo punto (l'album è n. 52 in Billboard). Beninteso: Live Through This non è tra i peggiori dischi del '94. È che nessuna canzone riesce a essere tale dall'inizio alla fine; nessun brano riesce a non annoiare o a non far calare interesse in qualche punto. E questo per parlare dei migliori. Gli altri valgono solo uno sbadiglio. I migliori comunque - come in Pretty On The Inside - sono retti dal solo cuore della Love. I lampi, gli spunti che coinvolgono non sono, al solito, dovuti a una benché minima artisticità, ma solo alla capacità di raccontare genuinamente i propri stati d'animo. Nell'esordio, gli stati d'animo erano quelli di una roccia o una fogna. Adesso di una punk-rocker media. Prima c'era l'apocalisse, ora un country di mantenimento. Prima la reificazione più totale, ora una vita forse presuntuosa, talora commovente, più spesso stupida. I produttori sono Paul Q. Kolderie e Sean Slade, la coppia di tecnici del suono più famosa del mondo indie. "Violet", "Plump", "Jennifer's Body", "I Think That I Would Die" i brani (4 su 12) per cui valgono delle serie considerazioni.

Celebrity Skin (1998) completa l'approdo alla musica di massa, raggiungendo il n. 9 nelle chart di Billboard. "Celebrity Skin" (grunge melodico anni dopo la fine del grunge) e "Malibu" (orrenda ballata garage-rock) furono i singoli. Su quest'ultimo, la penna di Billy Corgan, leader degli Smashing Pumpkins, si dimostra di notevole insipidità - la stessa insipidità e la stessa penna che affliggono gran parte dei brani. Live Through This è meglio di Celebrity Skin perché nel '94 la Love andava a letto con Cobain e tra una seduta e l'altra gli rubava qualche spartito; nel '98, con Corgan, si trattò solo di spartiti peggiori.

Sciolte le Hole (2002) che avevano seccato ogni linfa, la Love, forse in attesa di un ingaggio cinematografico o televisivo importante (proprio come fa Madonna da anni e anni) nel 2004 ha fatto uscire American Sweetheart riuscendo persino a far rimpiangere di non essersi rifatta alla musica di Madonna. Nel frattempo, continua a riempire le cronache con le sue disavventure legali, tra processi per droga e arresti per aggressioni e intemperanze varie.


TOMMASO FRANCI






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LIVE REPORT : LACUNA COIL - Milano, Alcatraz (26/9/2006)


Dopo averne sentito parlare tanto, dopo avere ascoltato un paio di volte l'ultimo album, dopo averne sntite di ogni su di loro, ho deciso di andara a vedere i Lacuna Coil all'Alcatraz.
Il frutto della discordia tra tanti metallari (chi li osanna si contrappone drasticamente a chi li denigra) aveva attirato la mia curiosità, ma il concerto di ieri sera all'Alcatraz mi ha lasciato nel dubbio.
I ragazzi suonano benissimo, hanno un buon impatto live e si muovono benissimo sul palco, ma qualcosa che manca c'è: lo spirito metal non è incarnato fino in fondo, contaminato dal new metal nei suoi aspetti più commerciali.

Comunque : entro all'Alcatraz con Lino intorno alle 22, poco prima che si spengano le luci e abbia inizio lo show. L'acustica non è delle migliori (solitamente all'Alcatraz si sente meglio) ma con il passare dei minuti la situazione migliora.
Gli effetti di luce sono notevoli, il coinvolgimento del pubblico, inizialmente un pochino freddo, cresce mano a mano che l'ambiente si scalda.
Le voci di Cristina e di Andrea si mischiano bene alla potenza sonora degli strumenti, un po' sacrificati, come detto, da una cattiva acustica.
La scaletta è un buon alternarsi di vecchi successi e nuove hit : tra i pezzi inediti, spiccano le irresistibili "Fragile" e "Fragments Of Faith", sottolineate da una partecipazione notevole.
Seguo il concerto a sprazzi, distrendomi un po' nei pressi del bar (eh beh...) ma tutto sommato seguo tutto lo show.
"Enjoy The Silence" dei Depeche Mode, singolo di maggiore successo tratto dall' ultimo "Karmacode", riapre le danze dopo una breve pausa, seguita dai pochi bis, tra i quali "Our Truth" e "Heavens A Lie".
Alle 23,15 infatti, dopo solo un'ora e un quarto di concerto, le luci si accendono e lo show finisce, proprio quando sembrava che l'atmosfera si stesse scaldando veramente.

E' questa probabilmente, la cosa che mi ha lasciato più perplesso : i Lacuna Coil girano il mondo, suonano in Inghilterra, in America (hanno fatto da spalla all'ultimo tour americano di Rob Zombie), in Germania e quando tornano a casa, nella loro città, propongono uno show che non ha NULLA di più del solito. I gruppi nelle propria città dovrebbero dare il massimo e andare oltre ogni limite, cosa che i lacuna si sono ben guardati dal fare...

ALE

martedì, settembre 26, 2006

ANTHRAX : 25° anno di storia!


Circa un mese fa SCOTT IAN, storico chitarrista degli Anthrax, ha postato un messaggio personale per festeggiare i 25 anni della metal band newyorkese. Il post recita : "Sono passati 25 anni da quando Danny e io abbiamo dato vita a questa band. 25 anni! Chi fa qualcosa per 25 anni?! Nella carriera di una band, quella cifra suona sempre come un migliaio di anni. Ma, e lo dico con grande serietà, è il risultato di cui vado maggiormente fiero. Continuare a suonare questa musica a così alti livelli è una testimonianza e un omaggio a tutte le persone che hanno amato e amano questa band. Ringrazio tutti quanti, sia quelli che hanno suonato al nostro fianco nella band, sia quelli che hanno trovato il tempo di ascoltare la nostra musica.Un giorno scriverò un libro e ringrazierò pubblicamente tutti quelli che se lo meritano. Nel frattempo sollevate il calice e brindate con me recitando il mio motto preferito : "Here's to us and those like us and all the rest are cunts!"

Attualmente gli Anthrax, che sono tornati alla prima, storica formazione (Joey Belladonna (voce), Scott Ian e Dan Spitz (chitarre), Frank Bello (basso) e Charlie Benante (batteria)) sono al lavoro in sala prove, reduci dal lungo tour, che li ha visti protagonisti, anche in Italia, lo scorso Aprile.
Da parte nostro non possiamo che toglierci il cappello, davanti ad una band che rappresenta, senza dubbio, uno dei punti fermi della storia del metal mondiale.

lunedì, settembre 25, 2006

THE ORIGINAL SOUNDTRACK


San Pedro, ieri notte: sul ponte di un mercantile uno sconosciuto uccide un ex poliziotto corrotto. New York, sei settimane fa: in una stazione di polizia cinque uomini sono allineati per un confronto all'americana. San Pedro, oggi: cinque cadaveri carbonizzati sono allineati sul ponte di una nave. All'agente speciale Kujan tocca l'incarico di dipanare l'intricata matassa delle mezze frasi dell'unico superstite della nave. Questi spiega al poliziotto come tutto sia cominciato sei settimane prima: quando cioè i cinque sospettati della centrale di New York furono trascinati nella trappola tesa da un enigmatico genio del crimine, l'inafferrabile Kaiser Soze, di cui nessuno conosce l'identità.

Scritta più di dieci anni fa, la COLONNA SONORA de “I soliti sospetti” continua a essere uno dei più efficaci esempi di suspense musicale offerto dal panorama hollywoodiano. Frutto della collaborazione fra Bryan Singer e il compositore John Ottman, il soundtrack torna alla ribalta riproposto nella meritevole collana “Silver Screen Edition” edita da Milan e distribuita da Warner. Rimasterizzato digitalmente, lo score è ancora di prepotente efficacia, con quel suo sottolineare in modo puntuale le atmosfere ambigue della pellicola. Realizzata in condizioni “di fortuna” (a causa di un budget risicato, Ottman dovette registrare lo score sezione orchestrale per sezione orchestrale in una stanza che, oltretutto, non disponeva di uno schermo con cui sincronizzare immagini e musiche), questa colonna sonora è stata il primo vero successo del musicista californiano. Mantenendosi intelligentemente in bilico fra un uso quasi materico del suono, scelte vagamente minimaliste e incisi dissonanti, il musicista crea un prodotto musicale tagliente e unitario. Chiudono l’album i flash sonori, evanescenti e suggestivi, di “Les sons et les parfums tournent dans l’air du soir” di Debussy eseguito al pianoforte da Jon Kull. Come bonus, una recente intervista di Ottman (esclusivamente in inglese…) in cui parla della colonna sonora di “I soliti sospetti” e della sua visione della musica da cinema.

venerdì, settembre 22, 2006

ANGELIC UPSTARTS : Mensi lascia la band


Mensi, al secolo Thomas Mensforth, unico membro fondatore rimasto degli Angelic Upstarts, ha deciso di lasciare il gruppo a causa di una serie di motivazioni, personali e non, tra le quali spicca la sopraggiunta mancanza di stimoli per proseguire dovuta soprattutto alle continue accuse a lui mosse da certi promotori di pianificare le sue malattie. Da qualche tempo la salute del cantante non è infatti più ottima, costringendolo spesso ad annullare concerti ed apparizioni della formazione.

Come da volere dello stesso Mensi il gruppo continuerà, almeno per il prossimo futuro, la sua attività con Chris Wright a fare le veci del suo storico leader e fondatore, che invece suonerà più avanti un paio di concerti locali per i quali pianifica di affittare un posto per un intero fine settimana di modo che anche chi volesse venire da lontano possa avere un luogo dove passare la notte.

giovedì, settembre 21, 2006

DISCHI CHE HANNO FATTO LA STORIA



RIECCOCI QUI PER UNA NUOVA, CELEBRE LEZIONE DI STORIA. DA ONDAROCK LA RECENSIONE DEL DISCO PER ANTONOMASIA DEI CLASCH, SIMBOLO DI UNA GENERAZIONE, DI UNA CITTA', DI UN MODO DI PENSARE...

Postumamente eletto dalla celebre rivista americana "Rolling Stone" quale migliore disco degli anni 80, sebbene uscito nel dicembre 1979, "London Calling" rappresentò per i Clash l'album della consacrazione. Terzo della formazione londinese, dopo il fortunato "The Clash" e il meno fortunato "Give 'em enough rope", si presentò, infatti, sin dalla sua uscita sul mercato, come un lavoro maturo, ambizioso, destinato a lasciare il segno nei decenni a venire: un doppio Lp prodotto da Guy Stevens e la cui copertina divenne presto celebre. A proposito di quest'ultima, forse non tutti sanno che si tratta di una citazione di quella del primissimo disco di Elvis Presley, datato 1956. Esattamente vent'anni più tardi, nel 1976, nasceva a Londra il movimento "punk" e i Clash erano quei giovani che in una delle prime canzoni cantavano "no Elvis, Beatles and Rolling Stones".

Tre anni dopo, alla fine del '79, però, dopo lo scioglimento dei Sex Pistols, la morte di Sid Vicious, l'approdo del punk negli States, molte cose erano cambiate; i Clash stessi, che di quel movimento erano rimasti gli ideali portabandiera, cominciarono a mutare fisionomia: dismessi gli abiti punk e lasciata alle spalle una certa dose di ingenuità, i quattro non erano più i "city rockers" degli esordi, ma una formazione matura, in grado di guardare al futuro e, forse per la prima volta, pienamente capace di fare anche i conti con il proprio passato ideale, di recuperare le proprie radici musicali, quelle che la rivoluzione del punk aveva negato nella sua radicale contrapposizione a tutto ciò che l'aveva preceduta. Quella rivoluzione si era esaurita prematuramente perché non aveva saputo costruire o, meglio, non era stata in grado di ricostruire dopo aver distrutto; i Clash al contrario, intraprendendo un cammino personale, ci tentarono e probabilmente ci riuscirono: attraverso un recupero critico del passato, cercarono dei valori per motivare il presente, per poterli poi proiettare nel futuro.

Fin da subito, "London Calling" fu visto come un disco epocale, un vero e proprio spartiacque: sembrava idealmente eletto a sancire la fine gli anni 70, decennio ricco di fermenti, proposte, illusioni, fallimenti, e ad aprire la strada a una nuova decade, per molti versi differente. Un'intera generazione di giovani rockers, all'indomani dell'uscita di "London Calling", percepì, forse già con un pizzico di nostalgia, il definitivo tramonto del movimento punk "storico", ossia di quello che, in buona parte, si era identificato esclusivamente con la storia dei gruppi londinesi che l'avevano generato e alimentato: il punk-rock ormai invece, esportato negli USA e avviatosi verso l'impervia strada dell'autoproduzione, diventava qualcosa di diverso da quello che era stato, e un gruppo come i Dead Kennedys, che si formavano in quegli stessi mesi a San Francisco, appariva molto lontano da Strummer e soci, che pure di quello stesso movimento erano stati, inizialmente, tra i maggiori esponenti.

In "London Calling", a dispetto del titolo, la Londra infuocata del '77, quella della "Westway", dei sobborghi, dei mercati e degli scontri urbani, nonostante venga rievocata in alcuni episodi del disco, sembra ormai distante, e dei 19 (all'origine, 18 più uno nascosto, "Train in vain") brani che compongono l'opera, nemmeno uno solo di essi, musicalmente parlando, può essere più definito "punk", secondo l'accezione alquanto stereotipata che il termine venne ad assumere a partire dall'avvento della "seconda ondata". Eppure, nello stesso tempo, è proprio "London Calling" a rappresentare il vero e definitivo frutto maturo del punk britannico: un capolavoro che non sarebbe stato possibile senza quella esperienza e che, pur di essa superandone tutti i limiti, ne traghetta lo spirito essenziale nel panorama rock dei decenni a venire.

E' con questa sospensione tra passato, presente e futuro, che bisogna leggere il disco, a cominciare dalla sua storica copertina e al suo richiamarsi a quella dell'esordio di Elvis. Se messe a confronto, le due cover presentano la medesima grafica adoperata per le parole e gli stessi colori; allo stesso modo, in entrambe campeggia una foto in bianco e nero scattata durante un'esibizione live. Se dunque colpisce questa dichiarata similarità che assume la valenza dell'omaggio a un inossidabile mito americano, dall'altro lato, è proprio l'analogia stessa a mettere in risalto quello che sembrerebbe un contrasto stridente: la foto della copertina ispiratrice ritrae un Elvis mentre canta e suona imbracciando la propria chitarra; l'altra, al contrario, immortala il bassista dei Clash, Paul Simonon, nell'atto di infrangere con rabbia il suo strumento al suolo durante un concerto al Palladium di New York. Un contrasto molto ricercato per significare lo scontro generazionale, quello su cui il movimento punk aveva fondato il proprio credo (e, dunque, ecco motivato il riferimento 1956-1976). Ma, al medesimo tempo, l'intento citazionista porta con sé anche il segno del cambiamento, della maturazione, del cambio di prospettiva: manifesta un desiderio di pacificazione, di riassorbimento del contrasto stesso, che si traduce in un recupero del proprio passato ideale e in una sua rilettura in chiave moderna, tanto da costituire un modello per le generazioni future. C'è tutto questo nella copertina e, forse anche molto altro (come un saggio esemplare del contraddittorio rapporto di odio/amore dei Clash nei confronti degli States); la sua grande efficacia comunicativa è riposta probabilmente proprio nella sua vaga contraddittorietà e nel suo non privilegiare una "chiave di lettura": può essere letta come un tributo ad Elvis e al rock 'n' roll, e sicuramente lo è; ma forse contiene implicita anche una sottile denigrazione nei confronti di un "sacro" del rock americano e quindi dell'immaginario collettivo statunitense? Oppure, perché no, possono esser vere entrambe le cose insieme: da qui la complessità e, dunque, il fascino di quell'immagine; il suo oscillare tra passato, presente e futuro, come i Clash stessi in quei mesi di transizione. Ma, allorché "London Calling" assunse ben presto lo spessore di un vero classico del rock, la stessa copertina finì per diventare, paradossalmente, più famosa e addirittura più "classica" dell'ispiratrice.

Con "London Calling", per la seconda volta (dopo aver nel '77 firmato per la Cbs), i Clash si trovavano di fronte una scelta decisiva la quale, se allontanò i vecchi fan più oltranzisti, che si sentirono traditi da una band accusata di esser divenuta "conservatrice", di essersi venduta al mercato e di aver assunto atteggiamenti da rockstar, si sarebbe dimostrata pienamente ricompensata non solo dal grande consenso di pubblico e critica che l'album ottenne sia in patria sia all'estero ma, a posteriori, dalla sua longevità, dalla sua modernità e dalla grande lezione che se ne trasse. Se "London Calling" venne accolto come un capolavoro, basta poco per accorgersi che in questo disco, rispetto ai precedenti, la maturazione della band è davvero notevole: i Clash attraversavano un periodo di straordinario equilibrio, che in parte non avrebbero ritrovato con il successivo "Sandinista!" né, sicuramente, in "Combat Rock", e cominciavano a costituire un valido punto di riferimento e un modello ispiratore per molte formazioni, anche parecchio differenti tra loro, che in quegli anni muovevano i primi passi: a cominciare dai Pogues di Shane MacGowan, fino addirittura agli U2; per poi esercitare la loro influenza, più o meno direttamente, su tanti gruppi degli anni 90.

Seppur sempre molto lontani da qualunque formalismo, i Clash di "London Calling" appaiono notevolmente cresciuti da un punto di vista strettamente musicale; a cominciare, ovviamente, dalla coppia Strummer-Jones che, in questo disco, regala alla posterità molti tra i brani dei Clash migliori di sempre: Joe Strummer vive un grande momento di ispirazione e acquista una sua vena poetica; Mick Jones si dimostra un eccellente compositore con una quasi maniacale cura degli arrangiamenti, oltre che rivelarsi alla voce perfettamente intercambiabile con Strummer: i brani più "pubblici" e militanti sono quelli adatti alla voce di Joe, i momenti più "privati" e intimistici, invece a quella, molto diversa, di Mick. Ma è anche grazie alla solidità della sezione ritmica che i Clash riescono a ottenere i più alti risultati; spesso si trascura l'importanza che, sin dagli inizi, ebbe per il gruppo un batterista come Topper Headon, musicista alquanto tecnico e con una formazione jazz alle spalle, e che in "London Calling" diede anche prova della propria creatività. Al basso, Paul Simonon è maturato anche mediante il contatto con influenze musicali diverse, molte delle quali fu proprio egli a introdurre nel repertorio della band. Infine, in "London Calling" fanno la loro comparsa anche altri strumenti, adesso divenuti indispensabili: primi fra tutti, fiati e percussioni; episodicamente, anche pianoforte e organetto.

Se è quindi evidente che i Clash danno vita ad un album che si distacca dai precedenti, non bisogna però commettere l'errore di vedere, come spesso si fa, una netta cesura con il passato: il gruppo, infatti, non rinuncia a nessuna delle proprie caratteristiche iniziali; matura e si evolve, ma senza mai smentirsi. "London Calling", anzi, è proprio il disco che esalta maggiormente una grande qualità che i Clash hanno sempre posseduto, quella che ha fatto sì che non abbiano mai scritto due canzoni che si assomigliassero tra loro: la varietà. Varietà di timbri innanzitutto, con la già menzionata alternanza alla voce di Strummer e Jones (in alcuni brani, anche con la compresenza di entrambi, in dialogo), e fantasia compositiva. La versatilità che ne deriva è quella che probabilmente costituisce la maggiore risorsa della band, sin dagli esordi e lungo tutto l'arco della sua carriera; a partire da "London Calling", come detto, è semmai esaltata maggiormente: persino il bassista Simonon, infatti, è preposto alla voce in un episodio.

Ma, se nel disco questa varietà "strutturale" della band si accentua, essa poi si sposa egregiamente con un'altra forma di varietà che costituisce la vera cifra stilistica dell'opera. Ciò che veramente affascina in questo album, e che ne rappresenta la novità, è infatti la grande pluralità di generi e sotto-generi, di influenze, ritmi, culture e sotto-culture che vengono messe insieme: si va dal rock "puro", per così dire, di "London Calling" o di "Death or glory", al vulcanico rock'n'roll di "Brand new Cadillac", rilettura in perfetto stile Clash di un originale dei 60 firmato Vince Taylor; dall'autentico reggae di "Revolution rock" e quello clashiano, ma non per questo meno "autentico", di "The guns of Brixton", fino al modernissimo, anticipatore di molte tendenze, palpitante emo-pop di "Lost in the supermarket"; passando per le sonorità jazzate di "Jimmy jazz", per lo ska di "Wrong'em Boyo", per il funk-ska di "Rudie can't fail"; e c'è davvero ancora tanto altro da scoprire tra una canzone e l'altra.

All'interno di uno stesso brano, inoltre, sono presenti tanti "motivi" diversi, a volte anche solo un certo riff o un particolare timbro, come certi lontani riverberi di instrumental-surf in "Brand new Cadillac" e "I'm not down" o certi echi latino-americani in "Spanish bombs", che rendono ancora più difficile, ammesso che sia possibile, una "pura" attribuzione di genere. I generi sembrano infatti fondersi, confondersi, per poi magari scoprire di possedere delle radici comuni, come le possiedono le culture che ne stanno alla base. Il risultato di questa grande varietà non è però, come si potrebbe pensare, una commistione dispersiva, confusa o poco creativa: al contrario, i Clash riescono a sintetizzare una serie di istanze diverse, a coglierne un'anima comune e, rileggendole in chiave moderna, le rendono inconfondibilmente "Clash sound"; né si pensi che lo scopo sia, in alcun modo, un nostalgico "tuffo nel passato": è solo il presente e il futuro che la formazione ha veramente a cuore.

Infine, quella della band non fu certo una scelta dettata da una qualche prospettiva commerciale, come accadde invece per altri gruppi, ad esempio i Police, che, dietro la scia degli stessi Clash, mescolarono sonorità diverse, ma forse più per vendere copie che per un'autentica vocazione. Al contrario, per i Clash non si trattava di una totale novità o un radicale cambio di prospettiva rispetto al passato: fin dagli esordi, infatti, si erano misurati con il repertorio reggae e avevano dato vita, primi in assoluto, a un singolare connubio tra punk-rock e reggae (lo stesso Bob Marley li omaggiò, citandoli in "Punky reggae party"). Adesso, gli orizzonti musicali del quartetto sembravano aprirsi ancora di più: al già sperimentato reggae, si affiancava il recupero del rock'n'roll nella sua vena più genuina, ma anche altre sonorità e influenze differenti tra loro. Non si dimentichi, poi, che i Clash sono stati tra i pionieri nel recupero di generi e sotto-generi nati negli anni 50, e negli anni 70 attraversanti alterne fortune, come il "rockabilly" o lo "ska", e nella loro reintegrazione nel rock contemporaneo, determinando quella commistione di generi molto viva ancora oggi in diversi ambienti rock, alternativo e non.

Quello che è fondamentale è che in "London Calling" i Clash non andavano solo alla ricerca di quelle che ritenevano essere le proprie origini ma, spinti da una passione per l'intero fenomeno "rock" nella sua complessità, ne tentarono addirittura una personale genealogia, recuperandone anche quelle che sono le radici nere e che il punk aveva misconosciuto, generando spesso anche forme di ambiguità politica. In quanto ai Clash, nonostante qualche episodico fraintendimento determinato da rari estremismi e da alcuni atteggiamenti "militaristi", non ebbero mai con sé alcuna ambiguità politica. A dispetto dell'ostilità ricevuta sia da parte dei vecchi punk nostalgici sia dei nuovi punk statunitensi, la formazione non dimenticò mai le proprie origini "dal basso" e non perse il contatto con il proprio pubblico: significativa, tra le altre, la scelta di vendere il doppio lp al prezzo di un normale.

Sul versante dei testi e dell'impegno sociale, poi, i Clash non rinunciarono al proprio caratteristico "realismo", né arrestarono minimamente la propria militanza di band impegnata. Pur non sottomettendo mai le "ragioni musicali", anzi in perfetto accordo con esse, infatti, temi sociali sono presenti in tutto il disco: a cominciare da "London Calling", il brano che, oltre darne il nome, apre l'album; ma che apre anche la strada del decennio alle porte, di cui sembra prevederne molte inquietudini (pochi anni dopo, seppur parecchio lontano, Chernobyl, quell'allucinante e apocalittico "nuclear error" che nella canzone si immaginava, sarebbe diventata triste realtà dando vita a uno dei maggiori disastri ecologici dei nostri tempi); "Spanish bombs", una ballata scandita dal raffinato "duetto" Strummer-Jones, recupera le sbiadite, ma ancora impresse, memorie della guerra civile di Spagna; "The right profile" è dedicata alla memoria dell'attore Montgomery Clift, uno dei "belli e dannati" della vecchia Hollywood; in "The guns of Brixton", il messaggio sociale è affidato alle sonorità del reggae, che in questo brano fa risuonare le sue corde più cupe ed è reso ancora più pregnante e autentico dalla voce del bassista Simonon, nato proprio a Brixton, quartiere londinese simbolo delle lotte della comunità "black"; nella splendida "Lost in the supermarket", affidata invece alla voce di Jones, il delicato ricordo di un'ordinaria esistenza vissuta nel grigiume di una periferia londinese diventa la commossa denuncia dell'alienazione e della solitudine dell'individuo nella società dei consumi e dell'urbanizzazione; l'antiamericanismo di "Koka Kola" è l'altra faccia di quello che è generalmente considerato l'album "americano" dei Clash; "I'm not down", già dal titolo, rende l'idea di quanto sia ormai distante il nichilismo della "blank generation". E la cover di "Revolution rock" affida ancora una volta al reggae l'invocazione per un "rock rivoluzionario". Come lo fu sempre quello dei Clash e, ancor di più, forse proprio nel momento in cui sembrò che voltassero le spalle al passato.

Se la loro rivoluzione non portava più il nome di "punk", era perché quel movimento, nella forma in cui era nato, aveva ormai concluso il suo corso: i nostri non lo rinnegarono, né lo tradirono, ma compresero che, per mantenerne davvero vivo lo spirito, era necessario superarne i limiti, musicali e intellettuali, troppo angusti in cui era stato ridotto. Se però "punk", come alle origini, è chi non accetta le convenzioni e le aspettative che la propria comunità impone, i Clash continuarono a esserlo proprio nel rifiutarsi di accettare una qualsiasi formula standardizzata e limitativa, nel non essere mai quello che ci si sarebbe aspettati, o che si sarebbe voluto, che fossero: dimostrando che l'attitudine va ben oltre la semplice accettazione di un canone, insegnarono che se si ama veramente la musica, non si possono mettere ostacoli di nessun genere al proprio talento. Ecco perché i Clash, che del punk non furono figli ma tra i padri stessi, non considerarono mai questo come un genere o una sottocultura rock, ma dimostrarono invece che, se per alcuni quel movimento era stato solo una "truffa" oppure una forma di cieca distruzione fine a se stessa, per altri invece, per loro, scaturiva da una sincera passione per il rock e dalla condivisione di una serie di valori che esso, ai loro occhi, era in grado di veicolare alle generazioni future, come aveva fatto nei confronti di quelle passate.

Joe Strummer e Mick Jones: due personalità e due talenti diversi per natura, spesso difficili da conciliare, ma che, finché si trovarono uniti in un progetto comune, diedero vita ad una coppia straordinaria, la quale, per diversi motivi, nel rock inglese è paragonabile solo a quella Lennon/McCartney. Quest'ultimo punto deve fare riflettere: se il vero scopo di fondo di quella rivoluzione musicale che, nella seconda metà degli anni 70, prese il nome di "punk" era stato, per molti versi, quello di dar vita a un nuovo rock d'oltremanica che si affrancasse dall'eredità beatlesiana, furono i Clash e solo loro, proprio nella maturazione e nel superamento dello stesso "punk" nei suoi limiti culturali, nei suoi canoni musicali e in tutte le sue contingenze storiche, a realizzarlo veramente. A partire da "London Calling", infatti, dopo l'epoca "d'oro" di Beatles, Stones e Who, i Clash vanno ricordati come quella che è stata, con ogni probabilità, la più importante formazione britannica nella storia del rock contemporaneo.

mercoledì, settembre 20, 2006

MUSIC & FOOTBALL : Erode


PER LA RUBRICA LEGATA A MUSICA E CALCIO, CI OCCUPIAMO DEGLI ERODE, BAND PUNK DI COMO, DICHIARATAMENTE SCHIERATA, AUTRICE DI QUELLA CHE PROBABILMENTE E' LA CANZONE ITALIANA SIMBOLO PER MOLTISSIMI ULTRAS DI TUTTO IL PAESE: FRANA LA CURVA

"Scusate studio vi devo interrompere, qui al Senigallia di Como, un gruppo di teppisti si stanno scagliando contro le forze dell'ordine, gli incidenti in curva nord sono gravi, questa gente non è degna di essere chiamata tifosi..." inizia così "Frana la curva" brano storico degli Erode, canzone simbolo della rabbia ultras e manifesto per tutti quei giovani che amano creare disordini negli stadi.
Correva il ’97 quando i lariani Erode davano alle stampe il loro unico vero disco, Tempo che non ritorna, che focalizzava meglio quello che la band aveva fatto sino a quel momento (un paio di 7’’ più alcune partecipazioni in compilation varie). Dopodiché, silenzio.

La Gridalo Forte, qualche anno dopo, compie un’azione lungimirante nel ristampare (rimasterizzato e con due bonus) questo lavoro, visto che negli ultimi anni, complice anche il passaparola in internet, il disco in questione si è guadagnato l’improbabile appellativo del migliore disco punk italiano.
All’epoca mi sfuggirono e quindi approfitto della seconda chance che mi offre gentilmente l’etichetta della Banda Bassotti.
Il punk degli Erode graffia, anche a distanza di anni, e colpisce così come colpiscono i testi, che grondano voglia di riscatto e rivoluzione. Violenti e per niente mediati, come nella classica tradizione punk/oi! nostrana, i pezzi che compongono il disco bene si inseriscono nel filone del punk-rock più militante: l’iconografia sovietica e una manciata di anthem dal refrain coinvolgente fanno il resto.
Musica che proviene dal basso e che racconta vite ai margini e speranze di una classe (operaia?) minoritaria schiacciata tra modernizzazione e globalizzazione, estromessa di forza dal ciclo produttivo e collocata ai confini della società.
Banditi, Orgoglio Proletario, Sangue Sudore e Lacrime, sono solo alcuni esempi di questo rozzo proclama leninista che affianca Stalingrado ad improbabili modelli rivoluzionari (gli ultras che affollano le curve degli stadi, come fanno del resto un altro centinaio di band della stessa estrazione), abbozza timide riflessioni di natura socio-economica e le affoga in slogan e proclami.

Troppo poco ironici per essere gli autori del più grande disco punk italiano, gli Erode si distinguono però dalla massa di band dal siffatto codice genetico per una capacità compositiva che va oltre l’intuizione di una buona melodia su tre accordi e il coretto ad effetto nel ritornello. Cito a titolo di esempio Panico Panico, Stalingrado e Ti ricordi, dove gli Erode si fanno più uligani: insomma, aleggia il fantasma dei Cccp –Fedeli alla linea, ma ancor più fedele all’ortodossia rispetto al Ferretti berlinese.

Internet, le ristampe, i passa parola, hanno fatto degli slogan degli Erode una delle leggende metropolitane del nord Italia e non c'è ultrà del bel paese che non abbia mai cantato con rabbia... FRANA LU CURVA FRANA SULLA POLIZIA ITALIANA!

martedì, settembre 19, 2006

RECENSIONE DELLA SETTIMANA


LA RECENSIONE DI OGGI E' CURATA DA CARLETTO, DJ QUATTROASSI ED ESPERTO DI SOTTO CULTURE, CHE CI PARLA DI HIP HOP DALLA CAPTALE...

TITOLO : I più corrotti
AUTORE : Guru & Metal carter -Truceboys-
GENERE : Hip Hop
PROVENIENZA : Roma (ITA)
ANNO : 2006

Se pensate che le cose che ogni giorno ci propinano i mass media siano finte come la fica di Maurizia Paradiso,allora questo è un cd che fa per voi!
I 2 rappers romani sfornano rime sempre piu' truci e crude da far venire la pelle d'oca anche a Stephen King e Dario Argento!Riescono a far diventare truce anche Inoki,tra i featuring insieme a Dogo Gang(Vinz e Gue') e Duke Montana.
Gia ad una prima occhiata ai titoli vediamo che quasi ad ogni canzone e’ intervallata da uno skit(un intervento, per la maggior parte delle volte parlato, di qualche personaggio) di qualche personaggio della scena storica romana.
Il cd parte con un intro costruito con gli 3FX per passare poi ad un pezzo che presenta i 2 reppers;molto ben riuscita la rima a cui si paragonano a Virgilio e Dante”che giocano a carte”. La terza canzone e’ quella che da il titolo all’album e sfila su un bel beat costruito ad arte dar Noiz che con Lou chano hanno dato vita alle basi.”Dolore dentro” e’ uno dei pezzi piu’ belli dell’album dove canta solo Gel che esprime tutta la sua paura e la sua depressione (ovviamente a modo suo!)verso la la vita’che spesso te lo mette in culo.Il pezzo secondo me piu’ riuscito e “corpus Christi”dove Duke Montana regala un featuring da panico!Di questi 2 pezzi e’ presente il video su youtube.com..non ancora sul loro sito!Vi cito solo l’inizio: ”TRUCEKLAN, LAPO ELKANNMI SIEDO IN TRAM I FANS SI BUCANO A DOVERE BAM BAM!”…Nessun rimorso”invece e’ la canzone solista di Metal Carter, anche lui vuol farci vedere che la realta’ non e’ tutta rose e fiori ma anzi…c’è anche quel rovescio della medaglia chiamato MALE!A cui i 2 rappers si ispirano profondamente!”Lavaggio del cervello” e’ il brano dove sono presenti i Vinz e Gue’ che lasciano il posto a “la clessidra “ e “Gel vs gel”(anche di questo brano e’ presente il video scaricabile sul sito del truceklan).”Metal Carter church”…su base metal e’ una canzone che poteva essere benissimo stata scritta da Donato Bilancia,Stevanin o qualsiasi altroserial killers…DA PAZZI!”Stesso raccordo” invece e’ il pezzo STREET dell’album dove partecipano Cicoria,grandioso,”vengo da Gregorio dove ogni impiccio fila liscio come l’olio…”,Cole con un flow che ti spacca i timpani e mr phil.Ovviamente il pezzo parla dei quartieri all’interno del GRA da dove i nostri vengono(ovviamente con
rancore).””Censura”,dove canta anche Inoki, si scaglia contro i benpensanti che
TROPPO spesso popolano la musica italiana(“,stasera vado a san remo salgo sul palco e bestemmio!”).Il cd si chiude con “caso limite”.Le tematiche come avrete capito sono droga, sesso, street ma tutto portato all’estremo e al limite inimmaginabile eliminando il buon gusto che pervade la nostra societa’ La sfiducia nel genere umano e in questa societa’fa scrivere ,ai romani,questi testi provocatori e pieni di insulti contro chiunque.
Ben fatto ragazzi,continuate cosi’ e non lasciatevi piegare!

CARLETTO

venerdì, settembre 15, 2006

MADE IN ITALY : LITFIBA


PER L'APPUNTAMENTO CON LE REALTA' ITALIANE, OGGI CI OCCUPIAMO DI UNA BAND STORICA. PER MOLTI (ME COMPRESO) I LITFIBA SONO STATI UN PUNTO DI RIFERIMENTO DELLA MIA CRESCITA MUSICALE, MA SONO SENZA DUBBIO FINITI, QUANDO PIERO PELU' HA DECISO DI LASCIARLI...

I Litfiba nascono nel 1980 a Firenze e dopo alcune pubblicazioni di promo e singoli ci sono i primi mutamenti della formazione originale a cui seguirà l'incisione nel 1985 di DESAPARECIDO per l'I.R.A. (con Piero Pelù voce, Ghigo Renzulli chitarre, Ringo de Palma batteria, Gianni Maroccolo basso, Antonio Aiazzi testiere), il primo atto della Trilogia Del Potere che contiene tracce già memorabili come "EROI NEL VENTO", " ISTANBUL", "TZIGANATA", e "LULU' E MARLENE". L'album, cantato in italiano, viene accolto benissimo dagli ambienti più attenti al rock e la band, diviene presto un oggetto di culto per molti appassionati che non mancano di accorrere ai concerti dove si scatena una grande energia vitale.
Con il doppio album 17 RE (1987), i Litfiba danno una scossa a tutto il panorama. Le influenze raccolte in molti anni esplodono in suoni caleidoscopici e melodie inarrestabili. Le belle canzoni che lo compongono sono molto Eterogenee ("RE DEL SILENZIO", "APAPAIA", "PIERROT E LA LUNA", "TANGO", "GIRA NEL MIO CERCHIO", "CANE", "FERITO"·..) e ogni facciata è ispirata a temi diversi tra loro. 12/5/87 ("APRITE I VOSTRI OCCHI") è l'album dal vivo che chiude questo periodo raccogliendo molto del loro materiale più significativo. Con il terzo lavoro che chiude la Trilogia Del Potere LITFIBA 3 (1988), il gruppo esce definitivamente dall'ambito underground per rivelarsi come la realtà più interessante dell'intero panorama italiano, grazie alla raggiunta maturità compositiva e all'esperienza raccolta in molti anni di concerti in Italia, in Europa e oltreoceano.

Rinunciando a forme di promozioni classiche, come quella televisiva, i Litfiba riescono comunque a raggiungere livelli di popolarità impensabili per un gruppo rock e PIRATA (1989), realizzato dal vivo e in studio, li consacra definitivamente. La formazione subisce un ulteriore mutamento con l'uscita di Gianni Maroccolo, attratto dalle sue passioni per la produzione artistica e l'abbandono di Ringo de Palma dovuto ad una fastidiosa forma di tendinite. Entrano allora nella band Roberto Terzani (basso), Daniele Trambusti (batteria), Federico Poggipollini come seconda chitarra e Candelo Cabezas (percussioni), che contribuiscono all'arricchimento del nuovo sound dei Litfiba, ispirato al latinismo del rock con canzoni come "TEX" e "CANGACEIRO". Su queste basi, Pelù e Renzulli rinnovano lo spirito dei Litfiba e il nuovo album EL DIABLO (1990), dedicato al fuoco e primo episodio della Tetralogia degli Elementi,sbanca le classifiche e si candida come manifesto della cultura del rock, sottolineando ironicamente la stupidità di alcune polemiche scaturite dalle presunte caratteristiche diaboliche del genere. I temi sempre toccati dalle liriche dei Litfiba (antimilitarismo, rifiuto delle droghe pesanti e difesa dell'ambiente) raggiungono così molti giovani e EL DIABLO raccoglie anche molti consensi per la sua invidiabile resa tecnica. Dopo tutti questi successi i Litfiba sentono la necessità di raccogliere tutti i brani migliori degli album finora pubblicati e di riunirli in un solo disco. Nasce così SOGNO RIBELLE (1992), una raccolta di vecchi pezzi della band rielaborati con nuove esecuzioni. Dopo un anno di tour all'estero e nuove composizioni, i Litfiba si ripresentano al pubblico con TERREMOTO (1993), pregno di rock ispirato dalle vicende politiche e sociali che sconvolsero il panorama italiano in quei mesi. Dedicato alla Terra, contiene liriche che trattano il tema della mafia e della televisione, del fascino perverso del denaro, dei mutamenti in corso e ancora dell'antimilitarismo. Lo stile si è ulteriormente evoluto e il sound è ancora più acido, guidato sempre dalla chitarra di Ghigo e dalla voce di Piero che nel batterista Franco Caforio hanno trovato un nuovo compagno di strada, mentre Federico Poggipollini e Candelo escono dalla band per seguire le loro strade musicali. L'album segna un punto di arrivo e documenta in modo inequivocabile che l'aspetto tecnico e realizzativo dei dischi dei Litfiba non ha pari in Italia nel campo del suono. Nei mesi successivi la band risponde nuovamente alla vocazione "live" e intraprende il TERREMOTO tour che fornirà lo spunto e la base per COLPO DI CODA (1994), il doppio album dal vivo che segna l'esordio per la EMI e che viene messo in vendita ad un prezzo speciale in una magnifica confezione che comprende il favoloso booklet NOVANTANOVEFOTO. La musica dal vivo è la dimensione per eccellenza dei Litfiba. Fin dalla sua nascita la band ha macinato chilometri su chilometri, passando dai pulmini sgangherati degli esordi alle grandi produzioni di oggi, toccando ogni angolo dell'Italia e partecipando ai più quotati Festival Europei. E' la volta di SPIRITO, realizzato con la collaborazione di Rick Parashar, il produttore divenuto celebre per "TEN" dei Pearl Jam. Prima delle incisioni la formazione subisce un nuovo mutamento: Terzani torna ad essere un chitarrista e al basso subentra Daniele Bagni. Con questa ossatura i litfiba aprono una nuova fase della loro storia. Dedicato all'aria, SPIRITO è un album che si palesa in modo immediato come un buon punto di partenza per esplorare nuove strade. Con arrangiamenti e suoni più essenziali delle passate produzioni, inaugura una nuova stagione che si concretizza con la pubblicazione di LACIO DROM (1995), un progetto che unisce un CD, con esecuzioni dal vivo inedite e remix e un homevideo realizzato con intenti molto originali durante lo Spirito Tour. Con MONDI SOMMERSI (1997) i Litfiba completano la Tetralogia dedicata agli elementi: dopo il fuoco di EL DIABLO, la terra di TERREMOTO e l'aria di SPIRITO è infatti la volta dell'acqua. Ad essa infatti si allude con metafore e riferimenti precisi a cominciare dal titolo stesso dell'album, titolo che, fra l'altro, sintetizza magnificamente il carattere delle canzoni che lo costituiscono: canzoni da scoprire e "metabolizzare" lentamente, dopo ripetuti ascolti, come fossero mondi sommersi appunto. L'album, equamente diviso fra canzoni adrenaliniche e momenti più introspettivi, segna una svolta nella carriera del gruppo che, perseguendo la strada della ricerca e della sperimentazione introduce nuovi elementi musicali nel proprio sound e si cimenta con l'elettronica. Prodotto dai Litfiba e registrato da Richard "Jack" Guy, MONDI SOMMERSI vede il ritorno in formazione del percussionista Candelo e il conseguente allargamento della formazione a sei elementi. Il nuovo album dei Litfiba, INFINITO, rappresenta un'importante tappa nel cammino del gruppo fiorentino, il punto di arrivo di un'evoluzione musicale intrapresa da quattro album a questa parte. Da tempo infatti Piero e Ghigo avevano iniziato a provare insani desideri d'evasione e a sperimentare nuove formule musicali. Così "Spirito" prima, con il suo carattere musicale più rock, a tratti quasi folk, e "Mondi Sommersi" dopo, maggiormente liquido e sperimentale nei suoni, erano serviti ad allargare le maglie di un suono che in Italia era diventato un marchio di fabbrica."INFINITO" album le cui canzoni sono nate praticamente in un lampo, si adagia sullo spazio sonoro creato proprio da quei precedenti lavori, affiancando le chitarre acustiche alle chitarre elettriche, mescolando psichedelia e beat anni '60 ai riff anni '90, trombe, falsetti vocali e, a momenti, atmosfere orchestrali. Ma il nuovo album, il cui titolo mette già in luce il "respiro" delle canzoni, fa qualcosa di più: si permette di rischiare grosso, proponendo un'ambientazione sonora, insolitamente acustica e "morbida", ma molto più colorata dei precedenti album del gruppo. Piero Pelù in questo disco sperimenta nuovi stili espressivi: languido e suadente (Sexy Dream), malevolo e insinuante (Nuovi Rampanti), come l'archetipo del cantante pop (Il Mio Corpo Che Cambia) o di quello rock (Prendi In Mano I Tuoi Anni), innocenti e naif (Vivere Il Mio Tempo). Lo stesso discorso vale per Ghigo e le sue chitarre, fedeli ad un lavoro di arrangiamenti che ha scelto di privilegiare i colori e l'armonia delle canzoni piuttosto che i virtuosismi. Dopo essersi occupati dei quattro elementi nei precedenti album, per "Infinito" i Litfiba portano il discorso sul Tempo, ossia l'elemento principe che definisce e regola tutti gli altri: se è lo scorrere del tempo che sta dietro al testo di "Il Mio Corpo Che Cambia", è anche quello il tema delle canzoni "centrali" dell'album, come "Prendi In Mano I Tuoi Anni", e "Vivere Il Mio Tempo".La parte, per così dire, "metafisica" dell'album si arricchisce di altre due canzoni: "Canto Di Gioia" e la conclusiva "Incantesimo" dalle atmosfere e ambientazioni quasi psichedeliche e ipnotiche. Ma "Infinito" vive anche di una sua parte più concreta e "satirica", secondo la migliore tradizione dei Litfiba: "Nuovi Rampanti, ritratto di ambiguo arrivismo e trasformismo e "Mascherina", canzone ironica, con i suoi sorrisi di facciata e i coltelli nascosti dietro la schiena. E l'amore? Dopo le dichiarazioni inginocchiate di "Regina Di Cuori", arriva "Sexy Dream" a mettere insieme sogno e realtà, sesso e amore, con la complicità della voce e del fascino di Mara Redeghieri (cantante del gruppo "Ustmamò"), mentre un momento a sé stante dell'album è rappresentato da "Frank", canzone dedicata a un amico parigino di Ghigo e Piero, con cui i due hanno condiviso nottate "legati al banco del bar"· Questo è quello che scorre dentro "INFINITO", un album aperto e poco incline alle definizioni, proprio come il suo titolo.

Arriva il luglio del 1999... è il momento della scissione! Piero lascia la band, anzi sarebbe il caso di dire che la band lascia Ghigo al quale resta solo il nome LITFIBA (registrato in Siae) e tanta energia (o forse rabbia...). Ma Ghigo senza perder tempo crea una nuova band grazie alla sua esperienza maturata nel sottobosco musicale italiano ed ecco sorgere i "nuovi" LITFIBA, con solista Gianluca "Cabo" Cavallo, una specie di clone vocale di Piero, del quale imita addirittura i mitici gorgheggi in alcuni momenti del nuovo album ELETTROMACUMBA, che vede la luce all'alba del 2000. Ghigo era di fronte a una scelta difficile: mantenere lo stesso stile dei "veri" LITFIBA dei bei tempi o lanciarsi in una nuova sfida musicale... ha prevalso la sicurezza decennale di uno stile immutato, che troverà pareri discordi tra gli "afecionados", si tratta di continuazione o clonazione? chissà... a voi il giudizio, magari confrontando con il "nuovo" Piero Pelù di NE' BUONI NE' CATTIVI, ricco di nuove sonorità e di aspetti rock non certo trascurabili, dovuti anche all'incontro di Piero con vecchi e nuovi amici musicisti. Arriva il 2 marzo 2001, una data che possiamo definire storica.... Piero Pelù partecipa come ospite al Festival di Sanremo e canta Toro Loco, Nè buoni nè cattivi e Bomba Boomerang... cos'altro ci riserverà il nostro Piero?

28 settembre 2001, esce il nuovo singolo dei Litfiba: "La stanza dell'oro" che anticipa di 3 settimane l'uscita dell'ultimo lavoro del gruppo: "INSIDIA", il secondo album del gruppo orfano di Piero, che acquista maggiore identità e forma. Più di "Elettromacumba", questo nuovo lavoro offre l'immagine di una band in forte sintonia. La voce di Cabo, ormai ci é + familiare e il quasi istintivo ascolto critico (e relativi paragoni) del primo album ha lasciato il posto ad un maggiore giudizio + equo. "Insidia" é un rock senza dubbio gradevole, cattivo quanto basta e a volte ancora di più, ad esempio nell'affrontare temi scottanti come la pena di morte in "Luce che trema", brano aggressivo e toccante nel testo quanto nella sonorità. Il disco dimostra di essere capace, però, di parlare anche d'amore, e i Litfiba lo fanno a modo loro ne "La stanza dell'oro". Il titolo dell'intero lavoro non é casuale ed é adatto a rappresentare nel miglior modo i dieci brani contenuti, visto che il tema dell'insidia si aggira in tutte le trame dell'album. Se per i testi possiamo chiamare a rapporto Cabo, é invece Ghigo, ormai chitarrista storico della band, supportato da un Gianluca Venier in splendida forma al basso, il principale responsabile della sezione ritmica. La scelta di un sound ancora più elettronico e distorto rafforzano la grinta contenuta nei dieci pezzi e ci offrono una delle tante forme del rock, quella accattivante e... insidiosa.

giovedì, settembre 14, 2006

DISSECTION : tragico epilogo


Esattamente un mese fa, il trentunenne Jon Nodtveidt, cantante e chitarrista dei dissection, si è tolto la vita con un colpo di arma da fuoco alla testa, nel suo appartamento di Hasselby in Svezia.
Voci non confermate ufficialmente (dopo un mese ancora non è venuta fuori la verità) sostengono che il suicidio sia stato un "rituale" commesso in ossequio al credo satanista, da anni pubblicamente confessato da Nodtveidt.
Prima di uccidersi il leader dei Dissection (che per chi non lo sapesse sono una band death metal) ha inviato delle lettere al padre e alla fidanzata per spiegare le motivazioni del proprio gesto; le lettere non sono ancora state rese note, nonostante le pressioni della stampa, che seguiva il cantante da quando, nel 1997 era stato arrestato e condannatoe per l'omicidio di un omosessuale algerino in un parco di Gothenburg. Liberato nel 2004, il musicicsta scandinavo aveva riformato la sua band, riprendendo l'attività live.
Lo scorso maggio i Dissection avevano annunciato il loro scioglimento...

mercoledì, settembre 13, 2006

MOBY against George W. Bush


QUI DI SEGUITO RIPORTIAMO L'ARTICOLO DI ROCKSTAR, NEL QUALE LA RIVISTA CI RACCONTA L'ATTACCO DI MOBY AL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI... UNA BELLA INIZIATIVA, NON C'E' CHE DIRE...

l produttore e DJ newyorkese ha pubblicato una lunga lettera sul proprio sito indirizzata al presidente degli Stati Uniti d'America che per l'anniversario dell'11 Settembre ha fatto visita a Ground Zero.

Il messaggio è chiaro fin dall'inizio con quel: “Stai lontano da New York, noi non ti piacciamo e tu non piaci a noi, il 90% di noi ha votato per John Kerry alle ultime elezioni.
Non ci fidiamo di te e crediamo, basandoci sui tuoi record, che sei un presidente terribile”.

Nel corpo della lettera si legge: “Vieni a NYC soltanto quando hai bisogno di aumentare le percentuali dei sondaggi
[...]
Ritornatene a Washington D.C. a guardare Dick Cheney comandare il paese
[…]
Probabilmente sei il peggior presidente che gli Stati Uniti abbiamo mai avuto
[…]
Noi non siamo la tua sgualdrina da quattro soldi, da utilizzare quando i tuoi sondaggi sono nel cesso
[…]
Credi solo in ciò che rende felice i tuoi finanziatori, sei un presidente terribile, inetto, corrotto e tragicamente incompetente”.

La lettera si chiude con: “Vai a casa GW e lasciaci vivere la nostra vita nella città attaccata a causa della tua inefficienza e incompetenza”.

Curiosamente, visitando il portale americano di Google News e scrivendo la parola Moby, appaiono ben 227 notizie relativa all'attacco del DJ nei confronti di Tom Cruise e Katie Holmes per aver pubblicato la foto della loro bambina Suri sulla copertina di Vanity Fair, mentre soltanto 3 (San Francisco Cronicle, Virgin.net ed Entertainmentwise) riguardano quello su Bush.

O Google ha un 'opinione' oppure i media americani sono più attratti dalle vicende di Tom&Katie.

Per leggere tutta la lettera cliccate qui: Moby Journal.

martedì, settembre 12, 2006

RECENSIONE DELLA SETTIMANA


TITOLO : Our darkest days
AUTORE : Ignite
GENERE : HC
PROVENIENZA : California (USA)
ANNO : 2006

Ci sono band che danno alle stampe album a ripetizione, di livello anche decente dal punto di vista della qualità, ma musicalmente concepiti con lo stampino. Ci sono invece gruppi che si prendono il loro tempo, attendendo l'ispirazione che spesso può tardare ad arrivare, ma che quando si manifesta, fa sì che venga fuori un lavoro eccellente come questo "Our Darkest Days".

Gli Ignite sono una formazione californiana nata nel 1994, da sempre impegnata nel politica, e sostenitrice di progetti come Earth First e Medici Senza Frontiere. Dal lato prettamente musicale, sono i promotori di un hardcore molto convinto e di pregevole fattura, nel quale i temi sociali sono, ovviamente, i predominanti.

La loro formula, sin dagli albori, si è andata via via sempre più perfezionando, creando uno stile originalissimo e immediatamente riconoscibile nel panorama hardcore melodico (una rarità nel genere) grazie al carisma e all'eccezionale voce del frontman Zoli Teglas. Punto di arrivo del percorso formativo della band è stato il precendente "A Place Called Home", che è però uscito nell'ormai lontano 2000, a testimonianza dell'accuratezza con la quale gli Ignite hanno costruito "Our Darkest Days", che riesce nella quasi impossibile impresa di migliorare quanto di buono la band ha creato nella sua carriera.

E' la voce di Teglas il vero valore aggiunto del gruppo: il cantante ha un'estensione vocale unica per un gruppo di questo tipo, che veramente non ha nulla da invidiare alla quasi totalità dei cantanti metal. Ed è proprio il cantato che impreziosisce in modo assoluto tutta l'ultima fatica degli Ignite, anche perché la band ha affinato ed elevato il proprio stile oculatamente, curando maggiormente la coesione fra la voce e la struttura melodica, ed affiancando alla maggioranza di tracce spiccatamente hardcore melodico una manciata di pezzi meno serrati ed orientanti al punk rock. In questo senso si segnalano la splendidamente strutturata “My Judgement Day" e la trascinante "Three Years".

Ma nominare una canzone rispetto ad un'altra significherebbe fare un torto al disco in sé, poiché la qualità media è altissima; una menzione la merita però “Slowdown”, sicuramente una delle tracce più riuscite per l'impostazione vocale di matrice metal inserita in un contesto hardcore. Questo connubio produce dei risultati eccellenti per la verità lungo tutto l'album, ma in modo particolare nella traccia in esame. Da segnalare anche "Bleeding", la quale ricorda nei suoi canoni qualche pezzo più tirato degli Offspring, e la cover di un classico degli U2, la famosissima "Sunday Bloody Sunday", riletta ed interpretata in puro stile Ignite. Il lavoro si conclude con la classica ballata acustica rilassante e ben arrangiata, e con un pezzo di world music, genere musicale che concludeva per la verità anche l'album precedente e che diviene così ulteriore tratto distintivo della formazione.

E' sempre difficile sbilanciarsi, soprattutto per giudizi estremamente positivi, ma di fronte ad un disco che entusiasma anche dopo numerosi ascolti l'acquisto non può che essere consigliato, potendo già affermare con sufficiente sicurezza che "Our Darkest Days" è sicuramente una delle migliori uscite discografiche del 2006 nell'intero panorama punk hardcore.

ANDREA APRILE (punkwave)

lunedì, settembre 11, 2006

U2 & GREEN DAY insieme per New orleans


La volontà dei due gruppi è quella di riuscire a ridare ai musicisti di New Orleans gli strumenti perduti durante l’uragano Katrina; U2 e Green Day entreranno in studio insieme per registrare “The Saints Are Coming” degli Skids.
Il brano farà parte di una campagna di sensibilizzazione lanciata dalla fondazione creata da The Edge, la Music Rising (‘Un fondo per la sostituzione degli strumenti dei musicisti del Golfo’), alla quale i Green Day hanno aderito immediatamente.

“Un anno dopo la devastazione è ancora fresca nei nostri ricordi” si legge sul sito ufficiale del trio punk “New Orleans è stata una città speciale per noi, una fucina di musica e creatività; è difficile credere che alcune parti del Golfo siano ancora devastate.
Per noi è molto importante continuare a sollevare le coscienze”.

Le registrazioni di “The Saints Are Coming” partiranno nelle prossime settimane negli studi di proprietà del quartetto irlandese; secondo quanto riportato da U2.com, il gruppo sarebbe in studio già da qualche giorno per preparare le composizioni per il nuovo album con il produttore Rick Rubin.

venerdì, settembre 08, 2006

THE ORIGINAL SOUNDTRACK


È ferragosto, un'altra odiosa festa estiva, come se l'esistenza non fosse ancora acerba a sufficienza, ci pensano i vari Lucignolo a mostrarci come si trastrullano quegli odiosi vip.
In un mare di superficialità ci viene propinata l'ultima festa di quel viscido ruffiano pieno di soldi.
Mi illudo di credere che il mondo non sia tutto così; non ne ho idea ma io non mi riconosco nelle immagini della televisione non mi sento di essere una persona superficiale che per la mente ha solo le nike e i pantaloni della rich, non mi va che la mia generazione sia identificata solo per i pantaloni a vita bassa e l'ipod.
No, non ho nulla in comune con gli adolescenti dell'inchiesta apparsa su panorama mesi fa che mi fece inkazzare (con la k per essere attuali) eppure sono un adolesente anch'io, forse dipende da me, sono io quello fuori contesto, sono solo un pazzo?
In un deserto di teenger lobotomizzati però mi viene in mente un altro svitato: il protagonista di Quadrophenia.
Metto su il disco… sto già meglio, ciò che sento è la frustazione e l'apatia, ciò che ogni adolescente probabilmente ha pensato almeno una volta: le paure, il volersi riconoscere in un gruppo, la solitudine (la nostra amica più fedele quella che non ci abbandona mai), la gioia per lo sguardo lanciato dalla ragazza della casa a fianco.
Tutte queste emozioni che fanno da cornice alla nostra inutile esistenza sono racchiusi in questo magnifico album scritto negli anni '70 ma senza la pomposità nauseante del prog o la pesantezza ottusa dell'hard rock.
Qui gli Who danno una delle loro prove migliori: Roger inerpreta magnificamente i brani, John suona da dio (vedi The real me) ed è autore dell' impetuosa cavalcata Doctor Jimmy , Moon non è ancora rincoglionito dalle droghe e dà grande prestigio e sensibilita alla sua batteria trasformata in una macchina da guerra straordinaria in ogni brano.
Infine ma non meno importante rimane Townshend, autore illuminato di tutti i testi nonchè chitarra, dalla furia punk (Sea and sand), triste e malinconica nell' atto finale Love reign on me.
In una parola umano, una spalla (ce n'è sempre bisogno) su cui piangere, nè sperimentale nè autoreferenziale, non gelido ma caldo come un abbraccio e forse, prima ancora degli artisti anni '90, dalla parte dei losers o meglio delle persone normali: di quelli che fanno un lavoro che odiano (The dirty jobs), quelli che pensano al suicidio (I've Had Enough), quelli che hanno problemi in famiglia (Cut my Hair).
Forse ho capito sono fuori contesto ma per fortuna su questo mondo non sono solo ad esserlo e, per buttarla sul romantico, le mode passano, le esistenze si dissolvono come le ossa di un morto, ma le emozioni rimangono.
Non un trend, non una marca, solo un atto umano, ascoltatelo vi farà bene. Non vi consiglio nessuna canzone, sono tutte bellissime e questa è un'opera rock e tutte le canzoni sono essenziali.

Greg 89

giovedì, settembre 07, 2006

LEMMY SI DEDICA AL ROCKABILLY


Si chiamano The Head Cat e hanno pubblicato un album di cover di Buddy Holly, Elvis e Johnny Cash lo scorso Maggio.
Il nuovo gruppo ideato da Lemmy nasce per esigenze artistiche del bassista e leader dei Motorhead che vuole “ricordare al mondo come ca**o dovrebbe suonare il rock’n’roll”.

Gli Head Cat sono formati dal batterista degli Stray Cats Slim Jim Phantom e dal chitarrista dei Lonesome Spurs Danny B Harvey; in questo progetto Lemmy però non abbraccia il suo Rickenbacker a quattro corde ma si dedica alla chitarra e all’armonica.

“Senza queste canzoni non ci sarebbero mai stai i Motorhead” ha spiegato a Billboard.com “Queste sono le mie influenze.
L'Heavy Meatal è il genere di musica che suonerebbe Eddie Cochran se fosse ancora nei paraggi”.

Il debutto degli Head Cat ('Fool's Paradise') è stato pubblicato dalla Cleopatra Records ed è possibile ascoltare qualche estratto sulla loro pagina su MySpace.

MUSIC & FOOTBALL : LIAM vs GAZZA


IL SECONDO APPUNTAMENTO CON MUSIC & FOOTBALL E' BEN LONTANO DAL PRIMO. QUESTA VOLTA NON PARLIAMO DI BAND O CANZONI DEDICATE ALLO STADIO, MA DEL FACE TO FACE IN UN PUB DI LONDRA, TRA IL LEADER DEGLI OASIS E L'EX CALCIATORE BRITANNICO...

Londra, 5 settembre 2006 - Come, se non peggio, di due hooligans, l'ex calciatore dell'Inghilterra, Paul Gascoigne, e il cantante degli Oasis, Liam Gallagher, sono venuti alle mani in un club di Londra.
Secondo quanto riporta la stampa britannica, lo scorso venerdì Gallagher e Gascoigne, che in Italia ha vestito la maglia della Lazio, si trovavano al 'Groucho Club' come due vecchi amici, ma dopo qualche birra la situazione è degenerata e si è scatenata una violenta lite, finita a pugni e insulti.
Secondo alcuni testimoni, il cantante degli Oasis sarebbe addirittura ricorso all'uso di un estintore per 'spegnere' le ire di 'Gazza'.
Sia Gascoigne sia Gallagher non sono nuovi a questi episodi, e più volte sono finiti sulle prime pagine dei tabloid per problemi legati ad alcool e scazzottate.
A scatenare la violenta lite tra Paul Gascoigne e Liam Gallagher potrebbe essere stato un commento di troppo del cantante degli Oasis su Bianca, la figlia adottiva dell'ex calciatore del Tottenham.
Bianca Gascoigne, figlia dell'ex moglie di 'Gazza', ha recentemente conquistato le prime pagine dei tabloid britannici per la sua vittoria nella versione inglese de 'L'Isola dei Famosi', e per un presunto flirt con Calum Best, figlio del compianto George Best stella del Manchester United, anche lui presente sulla 'Love Island'.
I rapporti tra Gascoigne e la figlia adottiva sono particolarmente tesi, tanto che l'ex giocatore le avrebbe intimato di non utilizzare più il suo cognome per farsi pubblicità. "Gazza era al club per un'intervista -ha raccontato un testimone della rissa al 'Groucho Club' di Londra- quando è arrivato Liam. I due si conoscono e hanno cominciato a chiacchierare, ma qualcosa è andato storto e gli animi si sono surriscaldati fino a far scoppiare la rissa. Si sono calmati solo quando è intervenuto il personale di sicurezza del locale, ma 'Gazza' è andato via furibondo".

mercoledì, settembre 06, 2006

DISCHI CHE HANNO FATTO LA STORIA


RIPRENDE LA NOSTRA AMATA RUBRICA DEDICATA AGLI ALBUM CHE HANNO SCRITTO PAGINE INDELEBILI NELLA STORIA DELLA MUSICA. OGGI TOCCA AGLI AEROSMITH, UNA DELLE MIE BAND PREFERITE IN ASSOLUTO, CAPACI DI DELIZIARE TUTTO IL MONDO CON DISCHI INCREDIBILI...

Pump è il secondo dei tre "Big Ones" degli Aerosmith, i tre gioielli della discografia della veterana band di Boston.
Gioielli non solo dal punto di vista qualitativo davvero eccelso, ma anche dall'incredibile successo commerciale che quei tre album riscossero: una vera fonte di singoli e hits che spopolarono tra gli anni '80 e i '90 e che vennero successivamente raccolte nella compilation "Big Ones" (appunto!).
Pump dunque, arriva in un periodo d'oro per gli Aerosmith già forti del successo di quel "Permanent Vacation" che al suo interno conteneva gli inni immortali di "Dude (Looks Like A Lady)", l'incessante battito della batteria di "Rag Doll", la strappalacrime "Angel" e quanto altro ancora che fecero la gioia di tutti: dagli amanti dell'hard rock (davvero in voga all'epoca), fino al pubblico di Mtv (allora diverso da quello attuale, ma non di tantissimo alla fin fine ;) ).
Ma stiamo parlando di "Pump" o sbaglio? E allora perchè tutta questa introduzione su "Permanent Vacation"? Beh, semplicemente perchè con "Pump" la storia si ripete! Si ripete e oserei dire che addirittura migliora, sotto tutti i punti di vista.
"Pump" rappresenta in pieno quello che gli Aerosmith sono stati (e sono tuttora): una band fortemente rock, col maledetto vizio di azzeccare i ritornelli e i refrain per rendere irresistibili le canzoni, potenziate dai riff inossidabili di Perry e dalla voce unica di Tyler.
Già, i Toxic Twins (non so se si chiamavano ancora così allora, ma sicuramente lo sono stati per un bel pezzo) sono gli assoluti protagonisti di un album stellare, fatto di 10 astri più luminosi che mai! Dall'iniziale "Young Lust" alla conclusiva "What It Takes" è un susseguirsi di brani ad alto potenziale radiofonico, ma anche ad alto tasso artistico non semplicemente commericiale e fine a se stesso.
"Love In An Elevator", "The Otherside", "Janie's Got A Gun" e la già citata "What It Takes" sono gli assi portanti di questo disco, che hanno contribuito largamente alle fortune della band, ma anche pezzi come "Young Lust", "F.I.N.E." e la splendida "Voodoo Medicine Man" sono qualcosa di imperdibile e persino i pezzi "più deboli" (le viroglette non sono messe a caso) come "My Girl" e "Monkey On My Back" sono dei mezzi capolavori, tanto che è davvero difficile trovare difetti a questo album che, effettivamente, risulta esserne privo.
Qualcuno potrebbe obiettare sulla svolta commerciale degli Aerosmith di questo periodo, ma se il risultato è questo, allora ben venga questa svolta (ed il risultato sarà infatti il medesimo anche nei successivi due album… se non tre).
Da avere, da ascoltare, da amare. AVVERTENZA: NON CONTIENE PUNTI MORTI!

martedì, settembre 05, 2006

LIVE REPORT : MADONNA - Roma, Stadio Olimpico (6/8/2006)


Rieccola qui, l’icona pop per eccellenza, la donna che in oltre vent’anni di carriera ha saputo puntualmente trasformarsi e rimettersi in discussione, diventando simbolo di trasgressione e di femminismo, ora persino scrittrice di libri di favole per bambini, riuscendo a restare costantemente al centro dell’attenzione e sempre in vetta alle classifiche di vendita con ogni disco, lanciando nuove mode ed essendo punto di riferimento per le teenager di tutto il mondo.
L’attesa per l’unica data italiana della cantante americana è cresciuta a dismisura, montata ad arte anche grazie alla sterile polemica sull’utilizzo dell’ormai celeberrima croce, come se i benpensanti conoscessero solo oggi gli atteggiamenti e gli strumenti utilizzata dalla Ciccone per propagandare la propria musica.
Dal giorno precedente il concerto si rincorrevano per la città voci su presunti avvistamenti della cantante americana, e col passaparola ecco che un negozio di Via Condotti veniva circondato da fan o un ristorante preso d’assalto da curiosi; lei invece ha calibrato tutto molto attentamente evitando di trovarsi in situazioni troppo affollate e occupando con la sua numerosa truppa un albergo nei pressi di Piazza della Repubblica, con marito e figli al seguito.
La nuova Madonna ha accantonato i panni bellicosi di “American Life” ed è ritornata alle origini, ad atmosfere più propriamente dance con l’ultimo album “Confessions On A Dancefloor” stasera rappresentato quasi per intero in uno show pensato per far ballare il pubblico, e lo Stadio Olimpico si è per una volta trasformato in una gigantesca discoteca a cielo aperto.
Il pre-concerto è stato riempito del dj set di Paul Oakenfold, e dall’applauditissima passerella di vip che per raggiungere i posti d’onore piazzati al centro dello stadio si sono ritrovati costretti a passare super scortati in mezzo al pubblico del prato, fra loro impossibile non notare il fotografatissimo Lenny Kravitz, il rapper Puff Daddy e il pluridecorato regista spagnolo Pedro Almodovar in compagnia della sua musa prediletta Penelope Cruz.
I quattro riescono a catturare la totale attenzione dello stadio per cinque minuti fino alle ore 21,45 quando si spengono le luci e da una grande palla da discoteca che si apre a fiore esce lei, bellissima e in formissima nonostante i 48 anni che compirà fra pochi giorni, sulle note di “Future Lovers”, ben miscelata col vecchio hit di Donna Summer “I Feel Love”.
Madonna si presenta in nero ai settantamila dell’Olimpico con i ballerini (che nel corso della serata riusciranno a evidenziare tutte le loro fantastiche doti acrobatico-danzerecce) abbigliati in vesti sadomaso, mentre immagini di cavalli al galoppo scorrono sugli schermi.
Dopo il nuovo singolo “Get Together”, cantato in un’atmosfera dove il colore rosso è predominante (e lo sarà per gran parte dello spettacolo), l’artista newyorkese punta subito su uno dei suoi più grandi classici, “Like A Virgin”, per surriscaldare la platea, anche se sarà uno dei pochi ripescaggi di vecchia data.
Già al quinto pezzo arriva il momento più atteso, con la croce cha appare sul palco, Madonna che crocifissa e con in testa una corona di spine canta “Live To Tell”, e l’effetto, a pochi passi dal Vaticano, è di gran lunga amplificato rispetto a qualsiasi altro posto del mondo in cui si sia finora esibita.
Madonna intende lanciare un chiaro messaggio contro le presunte guerre di religione; il pubblico applaude e il risultato finale sembra addirittura più efficace delle poche prese di posizione da parte del Vaticano stesso che dovrebbe magari impegnarsi in maniera più attiva nella risoluzione dei conflitti mondiali piuttosto che mettersi a porre censure su concerti pop con l’unico risultato di alzare inutili polveroni.
Da più parti è stato fatto ironicamente notare come Madonna sia l’unica persona al mondo in grado di mettere d’accordo tutte le grandi religioni monoteiste, nel senso che cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani si sono schierati all’unisono contro di lei e contro il suo show. Lei risponde in “Forbidden Love” facendo danzare due ballerini che mostrano grandi tatuaggi con la stella di David e la mezzaluna araba, intenti a lanciare messaggi di pace e riconciliazione.
L’ultima provocazione è su “Isaac”, dove il suono di un corno e un canto arabo prelude allo spogliarello di una ballerina coperta da un burka che a fine canzone resterà in costume.
E’ poi il momento del fortunato hit “Sorry”, che incita tutti a ballare e di “Like It Or Not”, quando Madonna va a sedersi alla fine della piattaforma che dal palco conduce quasi al centro dello stadio.
Subito dopo, l’ex Material Girl indossa i panni della rocker, imbraccia la chitarra elettrica e da consumata performer esegue le tiratissime “I Love New York” e “Ray Of Light”.
Arriva anche il momento dell’introspezione con l’accoppiata “Substitute For Love”/ “Paradise (Not For Me)”, quest’ultima con Madonna impegnata alla chitarra acustica.
E il set cambia ancora, si torna a ballare con il suo proclama dance per eccellenza, “Music”, miscelato al grande hit degli anni 70 “Disco Inferno”: lei in abito bianco a imitare il John Travolta/Tony Manero di “Saturday Night Fever”.
Si prosegue con la maliziosa “Erotica”, riarrangiata con cadenza più lenta rispetto all’originale, con il tropicalismo di “La Isla Bonita” e con il ricordo degli esordi di “Lucky Star”, che velocemente si tuffa nella recentissima “Hung Up” la quale trionfalmente chiude la partita con tutto lo stadio che grida all’unisono “Time Goes By … So Slowly”. Madonna se ne va così, senza bis e senza dare neanche un arrivederci, soltanto una frase sugli schermi: “Have You Confessed?”.
Chi non era al corrente della scaletta resta un tantino deluso da uno show apparso un po’ prefabbricato e freddo, pur evidenziando la solita professionalità e versatilità di un’artista carismatica come poche altre al mondo.
Madonna ha cantato , ballato, suonato la chitarra, indossato vestiti disegnati da Jean Paul Gaultier, privilegiando le composizioni più recenti, verso le quali nutre evidentemente grande considerazione: pur potendo contare su una discografia che conta decine e decine di grandi successi commerciali, Madonna oggi guarda al futuro e non ama crogiolarsi sulle fortune del passato. E così può permettersi una setlist senza “Into The Groove”, senza “Material Girl”, senza “Papa Don’t Preach”, senza “Frozen”, senza “Holiday” (appena accennata), tralasciando album interi.
Quindi non l’intenzione di autocelebrarsi in uno show pieno di greatest hits, ma la voglia di fare il punto sulla propria figura oggi, sui suoi gusti personali, sul suo modo di fare, vedere e vivere la musica.
Un’artista coraggiosa come sempre che nonostante i milioni di copie vendute in oltre vent’anni riesce ancora a far ballare tutti con brani come “Sorry” e “Hung Up”, le tracce migliori del suo ultimo disco. Un grande musical, più che un vero e proprio concerto, e la consapevolezza di aver assistito comunque allo spettacolo di una donna che verrà ricordata fra le maggiori artiste pop di tutti i tempi.

Scaletta:

Future Lovers / I Feel Love
Get Together
Like A Virgin
Jump
Live To Tell
Forbidden Love
Isaac
Sorry
Like It Or Not
I Love New York
Ray Of Light
Let It Will Be
Drowned World / Substitute For Love
Paradise (Not For Me)
Music / Disco Inferno
Erotica
La Isla Bonita
Lucky Star
Hung Up

lunedì, settembre 04, 2006

CONTRIBUTI, LETTERE E ALTRO : Cosa c'entra paris con la musica?!?


PUBBLICO QUESTA MAIL SFOGO SCRITTA DA PAZ, IL MITICO CHITARRISTA DEI PECCATO MORTALE, GRUPPO METALCORE DI MILANO, DELLA SQUADRA MOBSOUND, NEL QUALE SI AFFRONTA UN GRAVE PROBLEMA CHE AFFLIGGE OGGI LA MUSICA...

Bella Ale,
scrivo questa mail x il tuo blog per sfogare la mia frustrazione degli ultimi mesi. Non ho fatto le ferie, il che mi sta facendo ancora girare i coglioni e sono rimasto a milano tutto agosto, facendomi pere di Mtv, radio, concerti e tutto quello che proponeva musicalmente il palinsesto. Ad un certo punto, nei video a rotazione di ALL MUSIC appare PARIS HILTON, figa della madonna per carità, ma che cazzo ci fa sul All Music?! Poco dopo la triste scoperta : Paris Hilton ha inciso un disco! Oh mio dio! Cioè, la biondissima e stupidissima figlia di Hilton, diventata famosa per aver perso (chissà quanto involontariamente) il video privato in cui si faceva sbattere dal suo tipo ha inciso un disco?!
La sera esco, accendo RDS e... trasmettono la canzone di Paris Hilton! Inizio a bestemmiare in tutte le lingue quando mi tocca pure sentire lo speaker che dice "proprio carina questa canzone della bella paris..."

Ora, non voglio stare a dilungarmi coi soliti discorsi tipo che non c'è spazio per le band emergenti, che la vera musica non vale più un cazzo etc etc, ma cristo santo, come cazzo si fa a comperarsi il disco di una che non sa ballare, non sa cantare, non sa suonare, di sicuro non ha scritto lei la canzone, ma sa solo fare vedere le cosce e le tette (che per carità è un gran vedere perchè è fighissima ma almeno facesse un bel porno così siamo tutti contenti!) ma che con la musica non c'entra assolutamente nulla?!?
Tutte le varie Britney, Christina, Jennifer, almeno hanno sempre fatto parte della musica : le loro canzoni e il loro genre mi fanno cagare, ma almeno è gente che fin da quando aveva 6 anni partecipava ai concorsi canori per i bambini, e comunque ha estensione vocale etc etc, mentre questa qui è veramente un'incapace. La canzone è stupida, con un bit elettronico scadente e un video da terza media. E pensare che ci sarà dietro pure una produzione da milioni di dollari!

Il problema è che purtroppo l'industria musicale sta cadendo sempre più in basso, il pubblico è decelebrato e tutto questo va a discapito di chi, come noi, suona e suda nelle cantine a ritmo di metal, punk, ska, ma anche rock o pop, perchè il problema non è il genere che fai (ci sono gruppi pop come gli oasis che spaccano il culo) ma come lo fai, lo spirito, il cuore, l'arte, la sensibilità... insomma la musica vera, che quella stronza di Paris Hilton non ha idea di cosa sia!

Scusate lo sfogo ma mi sembrava d'obbligo. Bella Differentmusic e tutti quelli che ci credono ancora!
METALCORE WILL NEVER DIE!

Paz (Peccato mortale)


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MADE IN ITALY : ALBERTO CAMERINI


OGGI RIPERCORRIAMO LA VITA DI UN ARTISTA MOLTO PARTICOLARE, CHE HA RAGGIUNTO IL MASSIMO DELLA PROPRIA NOTORIETA' AGLI INIZI DEGLI ANNI '80, GRAZIE A CANZONI ORECCHIABILI, GENIALI E MAI BANALI E ALL'INTUIZIONE CHE EBBE NEL RICONOSCERE L'IMPORTANZA DEL LOOK CHE, ATTRAVERSO IL TRAVESTIMENTO, DIVENNE UNA DELLE SUE FORZE MAGGIORI.

Alberto Camerini nasce in Brasile, da genitori italiani, torna in Italia ancora bambino e inizia precocemente la carriera musicale, lavorando come chitarrista nelle sale di incisione. Partecipa alla realizzazione di numerosi album, anche di artisti affermati come Patty Pravo, Ornella Vanoni, Area, Stormy Six, Equipe 84, Eugenio Finardi (col quale forma anche un gruppo: "Il Pacco")…
Nel '76, fiancheggiato da illustri collaboratori come Patrizio Fariselli, Paolo Tofani, Lucio Fabbri, Lucio Bardi, Pepè Gagliardi, Paolo Donnarumma, e, in un secondo tempo, l'amico Roberto Colombo (già arrangiatore di vari artisti tra cui Fabrizio De André nel concerto con la Pfm) si mette in proprio e per i primi due-tre anni inizia i suoi esperimenti nel tentativo di creare una forma di pop moderno servendosi non tanto (non solo) dei paradigmi classici (blues, country, rock'n'roll, beat, folksinger ecc.) quanto dei ritmi e delle sonorità della sua terra: il Brasile.
"Sono nato nel sole di un paese grande - racconta - che libero forse non è stato mai, un paese grande, di gente felice, di grandi foreste e di grandi città…"
Per cui ecco che all'elettronica, ai sintetizzatori, all'elettricità degli strumenti, alla forma-canzone tipicamente rock, Camerini aggiunge samba, danze Catira degli indios, percussioni marimba, saudade, liturgia macumba, l'afoxe di Bahia e tutti i generi che compongono quell'eterogeneo melting pot di una nazione grande, molto particolare, in cui si sono assimilate influenze di tutte le popolazioni, in cui hanno convissuto il voodoo, il condomblè, le leggende dei pirati e cercatori d'oro, le orchestre dei musicisti jazz (la bossanova) ecc.

Ares Tavolazzi, ex bassista degli Area, partecipa alla realizzazione del secondo album (oltre ad esserne anche il produttore) suonando basso, chitarra portoghese e violoncello. Lo stesso Camerini si diletta con gli strumenti più inconsueti, dal mandolino fino alla programmazione dei campionatori.
Il cambio di etichetta (dalla Cramps alla Cbs) segna anche il passaggio, in modo ancor più evidente, degli interessi del cantante verso l'elettronica, e dà il via alla parentesi fortunata durante la quale le sue ricerche lo portano, per un certo periodo di tempo (1980-1984) a successi commerciali, dischi di platino, prime pagine di giornali specializzati, inviti a trasmissioni televisive e anche partecipazioni a vari festival (che, in qualche modo decretarono la fine di quel momento aureo in cui la sua band arrivò a servirsi addirittura di cinque sintetizzatori!).
Successivamente disgustato dalle castranti quanto miopi imposizione della nuova casa discografica, Camerini decide di concedersi del tempo per riflettere, per studiare e per maturare, forse anche costretto a questa scelta da problemi di salute e personali. Lo farà in Brasile e a Venezia. E non sarà un caso.
Tornato con l'idea di starsene più in disparte, di appoggiare la causa dei centri sociali, di fare spettacoli in piccoli spazi in cui avere un rapporto più stretto col pubblico, dopo un impacciato tentativo di autoproduzione con l'album Dove l'arcobaleno arriva (1995), riprende le sue sperimentazioni, soprattutto quel tentativo di mantenere vive le tradizioni popolari senza rimanere arretrato in campo rock, senza mai cadere in alcun tipo di revival e senza cedere allo "strapotere" anglo-americano. Così amplia i suoi orizzonti proponendo anche i generi tipicamente italiani che, tra la fine del Seicento e l'inizio dell'Ottocento, sfondarono in tutta Europa. Esperimenti nobilissimi che forse pochi hanno avuto modo di apprezzare. Per i più, Camerini resterà soltanto l'Arlecchino elettronico, più commerciale ed esibizionista.
Tra l'altro, anche durante il periodo di maggior notorietà, Camerini non si abbandonerà mai alla commercialità facile. Appassionato studioso di Commedia dell'Arte e delle controculture nella storia e nel mondo, semplicemente capisce, come già tanti avevano fatto da tempo fuori dall'Italia, che l'immagine è componente fondamentale nell'universo della musica pop. E per un po' si diverte a giocare. Ma fra una chitarra dalla forma strana e un'acconciatura bizzarra, fra un "Tanz Bambolina" e un "Rock'n'roll Robot" (massimo successo di sempre), nei suoi album compare immancabilmente ora un pezzo ska, ora un'arietta veneziana del XVIII secolo, ora una ballata, ora un brano in chiave salsa, sempre sotto una veste comica e divertita.

RAFFAELE PIRRONI